Gabriele Mattera

Galleria Civica Villa Valle . Valdagno

24/09/2005 - 23/10/2005


mostra gallery testi critici catalogo

Gabriele Mattera icone della solitudine e reliquie della memoria

Giuliano Menato

giovedì 11 agosto 2005

Gabriele Mattera icone della solitudine e reliquie della memoria

            Gabriele Mattera è una personalità di spicco nel panorama artistico italiano del secondo Novecento, un protagonista della pittura figurativa italiana, di cui è presenza appartata e schiva, ma feconda e viva. Attraverso il suo lavoro è possibile risalire alle vicende che ne hanno connotato la storia, segnato le trasformazioni, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, quando egli ha esordito, e ininterrottamente fino ai nostri giorni, rivelando una straordinaria capacità di rinnovamento, mai disgiunta da una vigile lucidità intellettuale e da una singolare felicità espressiva. Quella che Mattera nel corso del tempo ci ha consegnato, con immutata freschezza di rappresentazione ed accresciuta perfezione stilistica, non è solo una prova esemplare di bella pittura, sorprendente per chi oggi è sempre meno confortato dalla gioia della pittura, ma un documento attendibile in cui leggere in trasparenza il cammino compiuto da un filone importante dell’arte figurativa italiana negli ultimi Cinquant’anni. Una testimonianza, la sua, di una personalità autonoma sullo sfondo di eventi e processi che hanno caratterizzato inequivocabilmente la produzione per immagini della creatività contemporanea. Questo si evince passando in rassegna il lavoro per i cicli che l’artista ha realizzato nel corso dei decenni, estendendo i tempi della pittura a quelli della vita, superando l’apprezzabile risultato di una singola opera con quello esaltante di una serie di opere correlate tra loro per significare che l’azione artistica, quando segue con paziente ascolto la istanze dell’interiorità commossa e i principi della mente ordinatrice, acquista il largo respiro di un’ampia visione, sorretta da una vivace animazione che porta progressiva decantazione del tema, al costante affinamento del mezzo.

«L’andamento ciclico della ricerca artistica di Mattera – ha rilevato Vitaliano (2003) – dà l’impressione a chi segua da vicino la successione delle opere di un ininterrotta continuità, dove le novità tematiche e linguistiche non intervengono mai inaspettate fratture, ma sono il risultato di graduali trasformazioni, di piccoli mutamenti che di quadro in quadro possono anche sfuggire».

            Tempo della pittura, dunque, come storia di un’anima, delle sue visioni e sentimenti, non cronaca di isolati interventi che si accavallano casualmente sulla scena artistica, registrati con impassibile distacco. La tensione emotiva e l’attitudine visionaria affidate alle docili flessioni della pittura si dispiegano in Mattera con varietà di accenti nelle diverse fasi che ne costituiscono in monumentale corpus e nelle figure che di volta in volta sono convocate per svolgere un tema: da quello iniziale dei «Pescatori», di forte impatto visivo e di saldo impianto costruttivo, a quello recente degli «Uomini in rosso», di lenta sedimentazione e di larvata evidenza. Questi uomini, con i loro profili sfatti, resi con pennellata nervosa e franta, affiorano da superfici stratificate: sudari e sindoni, è stato detto, di un mondo dissoluto che all’improvviso riappare sotto altre spoglie, non più naturalistiche ma fantasmatiche, eco remota di momenti del vissuto depositati nella coscienza profonda, patrimonio esclusivo della memoria che li richiama in vita con folgoranti percezioni sensoriali ed emotive.

            Due sono gli atteggiamenti di fondo di Mattera quando, alla metà degli anni Cinquanta, inizia la sua avventura artistica: il rifiuto della narrativa realistica e l’attenzione ai moti interiori. Il tutto filtrato da un pessimismo di fondo, di natura esistenziale, che ci riporta alla svolta impressa in quegli anni al realismo sociale  ad opera di giovani artisti di diverse regioni d’Italia. Si era al tramonto di un’epopea che aveva cantato un soggetto storico cresciuto nella consapevolezza politica e civile, ma deluso della retorica che accoglieva stanchi modelli e perpetrava desueti stilemi mentre urgeva operare scelte coraggiose per una modernità della vita oltre che dell’arte. Si voleva restare ancorati alla storia, sensibili alle esigenze dell’uomo nei suoi mutati rapporti con la società in continua evoluzione, ma liberarsi dal concetto di storia come entità astratta da analizzare soltanto nel laboratorio delle idee. La quotidianità della vita vissuta in prima persona e sperimentata sulla propria pelle, nello scontro con una realtà in cui era al tramonto il mito delle magnifiche sorti e progressive, in un mondo che non dava certezza ma solo qualche speranza, imponeva agli artisti maggiori responsabilità, chiamati ad esprimersi attraverso il sentimento individuale per dare il quadro di una situazione fluida e complessa. Questi artisti non bandirono il verbo figurativo, che ampio margine concedeva all’invenzione, semplicemente lo adattarono alle nuove esigenze. Non si abbandonarono all’evasione, non seguirono fantastiche fughe, né si convertirono ad uno sterile cerebralismo di basso profilo e di scarsa incidenza. L’individuo, con i suoi assillanti problemi e la sua superiore dignità, non cessò di essere al centro dei loro interessi di uomini e di artisti. «A suo modo era un gesto politico – scrisse Mauro Corradini (1991) riferendosi alle “vibrazioni e tensioni esistenziali” riscontrate nel panorama italiano di allora-: che già si venava di interne inquietudini, di una meno aperta e disponibile classificazione partitica, che non sopprimeva l’individuo nel superiore apparato dei partiti di sinistra».

            Il ciclo dei «Pescatori», che si sviluppa nell’arco di un decennio e si esaurisce alla fine degli anni Sessanta, supera i termini cronologici convenzionali assegnati al realismo esistenziale, e ciò spiega perché Mattera, che di tale movimento condivise la rappresentazione dell’uomo nella sua interezza, al di là delle convenzioni contingenti, non si sia lasciato irretire da fuorvianti proposte, che decretarono, se non la fine immediata, l’inarrestabile declino di un generoso tentativo comune di tenere agganciata l’arte alla vita, eludendo il confronto diretto con la realtà nelle sue diverse manifestazioni. Il pittore ischitano non si era incagliato nelle secche del bozzettismo di maniera, sedotto dalle apparenze esteriori del sito pittoresco di appartenenza. La stessa cosa si può dire per altri valenti artisti isolani, che non si abbandonarono all’agiografia mitica dell’amata terra né scaddero nell’oleografia ad uso turistico. Pur con lo sguardo rivolto alla realtà circostante, Mattera si aprì alla cultura europea, attratto da certo espressionismo nordico di ispirazione sociale, che portò a scoprire le monumentali figure di Permeke, ma fu tra i pochi a cogliere la tensione spiritualistica del nostro Viani più umano e populista, e a percepire l’inquietudine esistenziale del Boccioni più intimista. Affidò queste ed altre sollecitazioni all’incupita scala cromatica di Sironi, ma accendendola di bagliori più vivi, animandola di sussulti più trepidi. Il principio abbracciato dalla nuova generazione di artisti italiani, di mettere la “cosa” davanti e di dipingerla senza secondi fini e mitizzazioni, non trovò d’accordo Mattera, per il quale la “cosa” era solo ed esclusivamente l’uomo, da riprendere al di fuori di ogni traduzione simbolica per l’affermazione del suo essere fenomenologico. Lontana da Mattera era ogni intenzione di denuncia sociale perché il soggetto da lui rappresentato andava oltre le circostanze riferite a un tempo e a uno spazio determinati, e, nell’immota espressività, intendeva essere documento di universale validità. Le figure dei pescatori portate in primo piano con i grandi volti scavati e gli sguardi fissi, con le mani congiunte e abbandonate sulle ginocchia, sono ritratti di una condizione, non immagini di una cronaca. Qui «il dolore è eterno, ha una voce e non varia», uguale in ogni essere vivente. La rappresentazione, per quanto realistica e dotata di grande potenza, ha un significato che va al di là della semplice adesione al dato di fatto e spinge verso una dimensione interiore. I Pescatori (1967), della collezione Kniffin di Baltimora stanno tra le potenzialità della materia di farsi carico di problematiche esistenziali e quelle dell’energia di trasformare con la forza della pennellata i riferimenti di vicende esterne che non si possono ignorare e dimenticare. Giorgio Severo, in un lucido contributo alla mostra del Realismo Esistenziale alla Permanente di Milano (1991), sintetizza così la funzione degli artisti con cui Mattera si confrontava: «Eppure a quelle opere e a quella poetica dobbiamo attribuire il giusto merito di aver tenuto fermo in tutti questi anni una possibilità di sguardo sull’uomo e sulla sua realtà fenomenica, sulla sua complessità esistenziale e culturale. La possibilità di uno sguardo lirico, di uno scavo metaforico nei gesti dell’espressione. La possibilità di una visione profondamente accorata alle ragioni dell’uomo ma, anche e simultaneamente, a quelle della forma e dei suoi intrecci psicologici, antropologici e appunto esistenziali con la nostra sensibilità più profonda. Quelle opere e quella poetica hanno aperto e mantenuto percorribile una sorta di terza via tra le sponde talora rigide del realismo e l’arbitrarietà epidemica dell’informale allora, o, più tardi, tra le algide concettualità aristocratiche delle diverse avanguardie e l’appiattimento popartistico e iperrealistico. E questo non è l’ultimo dei loro meriti. Esse, tra realismo e informale e, ancora, tra pittura di racconto e pittura di sensibilità o di mente, hanno intrecciato e combinato le più diverse pulsioni all’interno di un’aperta dimensione del fare, in presa diretta con i sentimenti più vivi e autentici dei loro autori, con le loro ansie, con la loro determinazione a restituire all’arte un ruolo non effimero nella vita di tutti».

            Nel ciclo delle «Bagnanti», inaugurato nel 1973, Mattera non cambia idea sulla condizione umana, che continua a considerare dominata dalla solitudine. Ma diversi sono i soggetti della rappresentazione, la categoria sociale cui appartengono, e, di conseguenza, i modi della rappresentazione. I bagnanti come i pescatori, personaggi dell’isola, sono davanti ai suoi occhi, cui non sfuggono azioni e riti. Il mezzo espressivo si affina per rendere conveniente le atmosfere nelle quali i nuovi soggetti si muovono, specchiando negli atteggiamenti esterni condizioni esistenziali profonde. La paralisi della volontà porta qui alla paralisi dell’azione. Le figure, bloccate nei movimenti richiamano talvolta la fissità  delle pietre (Bagnanti tra le pietre, 1974). La noia e l’accidia riducono l’uomo ad un automa alla deriva. Tutto ciò si riflette nell’immobilità dell’ambiente fisico, nell’aria satura e pesante che cancella, con stagnanti vapori, i confini con l’orizzonte, assorbendo in un’afosa vischiosità le fantasmatiche figure. Mattera, alla pari di personalità prestigiose della pittura italiana – Vaspagnani e Sughi, Cremisini e Gianquinto -, protagoniste di una stagione del realismo, si discosta da ogni modello narrativo e assimila gli umori esistenziali di situazioni inquiete e problematiche, nelle quali vi è il segno di un’avventura che rappresenta, fuori di tendenze e di mode, la realtà della ricerca e la realtà, in senso lato, di una cultura in movimento.

            Quello delle «Tende» è l’unico ciclo in cui la figura umana è fisicamente assente. Eppure tutto sembra richiamarla. Per alcuni anni, a partire dal 1982, la tenda occupa interamente il pensiero dell’artista. Viene implicata al centro della composizione come un fantasma che all’improvviso si erge, puntellata da aste su cui talvolta si affloscia e ricade, dando l’impressione che all’interno si agiti uno spirito inquieto. Come una sacca di carne vuotata e abbandonata (1982) è una delle prime redazioni di tende. È per noi quasi una dichiarazione di poetica, da cui prende l’avvio una nuova, più coraggiosa indagine espressiva. Come una medusa (1986-87) presuppone come ineludibile termine di confronto l’uomo: quella  sostanza fosforescente issata come una spoglia abbandonata richiama la morte o quanto meno mortali reliquie. Quando la tenda si riduce ad un telo disteso nel paesaggio spoglio all’intorno, allora si configura come un sudario sospeso nel vuoto, avvolto nel silenzio. Impedisce allo sguardo di andare oltre, e, come la siepe leopardiana, porta a fingere nel pensiero “interminati spazi di là da quella, e sovraumani silenzi, e profondissima quiete” (Come barriera, 1986). L’autore sprigiona la sua carica visionaria con pennellata franta e densa, grondante di materia intrisa di bagliori, fremente sotto l’incalzare della mano, che trasmette un’urgenza irrefrenabile. Di grande modernità è questa pittura che nasce dall’animo scosso, forte nelle tensioni e nei ritmi, accesa nei timbri e nei toni. Claudio Spadoni (1993) ha parlato di una svolta impressa da Mattera alla sua pittura: «Un rinnovato vigore che pare scuotere l’atmosfera torpida, stagnante con la sua luce ‘malata’ sulle spiagge. È come se l’artista riattizzasse i colori, muovesse l’impianto formale con una gestualità certo non sfrenata ma vibrante. Da far pensare ad una suggestione per casi singolari della pittura postinformale, per intendersi, dove una traccia, un nucleo figurale prendeva corpo dall’indistinto».

            «Uomini nella natura », «Uomini in rosso » e, più recentemente, «Uomini» in vario modo atteggiati ed evocati sono il tema dominante fin dai primi anni Novanta, svolto senza soluzione di continuità con una tensione e concentrazione da lasciar credere che l’azione creativa sia sempre riconducibile ad un sentimento profondo, ad un pensiero rivolto alla condizione umana. Nessuna mediazione simbolica, nessuna metafora allusiva fanno velo al vero, adombrano la realtà che la radiografia del soggetto rende eloquente nella nuda evidenza. Nessuno sfondo paesistico, nessuna prospettiva ambientale sono contorno a creature sospese nel vuoto, larve e tracce che colpiscono con i loro profili luminescenti riverberati nello spazio, sostanze psichiche di corpi senza peso. Mai la pittura è stata così lontana dalla rappresentazione, mai ha creato immagini così impressionanti con una pennellata che, dissolvendo la materia fisica, ci restituisce la sostanza spirituale dell’umano. La rappresentazione viene sostituita dalla rivelazione, prerogativa esclusiva di questa pittura, che, segnata da pennellate improvvise e taglienti in superficie, fa lievitare da insondabili profondità le pungenti fisionomie. Le immagini affiorano e affondano, fluttuano e balenano, a seconda dell’incidenza e dell’assorbimento della luce, che è un fenomeno fisico e spirituale insieme, come le folgoranti proiezioni dell’interiorità che solo le facoltà visive potenziate da una concentrazione mentale assimilano nella frammentaria dimensione del tutto. La rivelazione tramite la pittura dell’umano travaglio e della segreta tensione è una delle cose più difficili da rendere in termini visionari. Si tratta di rivelazione non di fantasmi inventati da una mente stravolta ma di sostanze che sussistono di per sé, in forma autonoma. Per sussistere non hanno bisogno di alcuna cosa, perché dotate di una struttura necessaria e autosufficiente come l’anima che può esistere senza il corpo. Qui l’autore si trova nella necessità di impadronirsi di una realtà spirituale, e, di conseguenza, di adottare i mezzi per offrire in modo plausibile quella realtà agli uomini che si servono di misure inadeguate. Queste immagini hanno ancora lineamenti corporei, ma trascolorano verso l’immaterialità. Sono figure in cui l’elemento fisico presente nella linea corporea si dissolve progressivamente nella luce interiore che sprigionano e in cui si evidenzia la superiorità spirituale. Eppure sono figure umane che il dolore e la sofferenza hanno affinato, non cancellato. Mattera nei suoi «Uomini rossi» e non, ripresi nelle posizioni più disinvolte e disinibite, e, a volte, disposti frontalmente come autentici sudari, comunica con tocchi di luce e di ombra la tensione, la vitalità dell’immagine, colta sovente con allucinata fissità. Sono ritratti senza nome, perché non nascono da soggetti particolari e identificati, sono esempi di una comune condizione esistenziale. Nell’impossibilità di trovare una relazione tra l’immagine e la persona ritratta sta la natura potentemente espressionista della figura rappresentata. Ed è questo fatto che conferisce alla creazione artistica un interesse superiore, anche sotto l’aspetto dell’impatto visivo: «Sono i segni irrazionali – diceva Francio Bacon – a creare il mistero del dato reale». Ma i segni irrazionali che suscitano l’arcano nelle figure di Mattera richiamano, per certi versi, Alberto Giacometti. Segni che nascono dalla coscienza dell’inesorabile solitudine dell’uomo nella sua finitezza, al di là della quale vi è il nulla. Priva di caratteristiche accessorie e aneddotiche, la figura si impone con nuda maestà, senza gli orpelli che impediscono allo sguardo di svelare ciò che l’uomo è nel momento in cui cadono le false apparenze. Al reticolo di segni, al groviglio di linee curve, ai cerchi chiusi svolti su fondi opalescenti, che prendono corpo e svaniscono in Giacometti – una sorta di disegno dentro il disegno -, si sostituisce in Mattera quei filamenti luminosi che affiorano dall’interno della pittura, bave rutilanti che rivelano ciò che appartiene al regno del silenzio. Attraverso l’apparizione umbratile e frastagliata delle immagini più che attraverso il loro indistruttibile rilievo, il personaggio viene incontro per ritornare poi dove era partito. Anche in Mattera – possiamo dire – come in Giacometti – secondo  Jean Genet (1957) -«la figura non vive come certi volti che si dicono vivi solo perché colti in un attimo particolare del loro movimento, perché sono segnati da un da un particolare che non appartiene alla loro storia; è proprio il contrario: i volti dipinti sembrano aver accumulato a tal punto la vita che non rimane loro un attimo da vivere, un gesto da fare, come se (appena defunti) conoscessero anche la morte, per sovraccarico di vita».

            La cifra espressionista delle figure in rosso può raggiungere, in qualche caso, una tensione al limite della rottura o del dissolvimento del soggetto, ma conserva alla composizione, in cui si dispone, la pacata naturalezza che fa pensare alla rigenerazione di umane reliquie. Il loro cadenzato abbandono incute il senso di un fantastico volere. «La dominante del rosso e delle sue notazioni coloristiche differenziate (di tono sopra tono, si diceva un tempo) è risultato – ha commentato Marco Loranti (2003) – di una “trasmutazione” ultima di un processo evolutivo di decantazione a anche di “purificazione” formale e cromatica rispetto alle opere giovanili (il ciclo dei “pescatori” e quello delle “bagnanti”) che approda ad una dimensione mercuriale nel senso di un impiego del pigmento rosso (il mercurio quale simbolo dell’oro, o meglio l’elemento chimico capace di fondere l’oro), di una sostanza che ha un’analogia simbolica con la natura del sangue, quando sgorga, che si effonde e si mescola con altro sangue a altre linfe; è come se la dimensione grande dei teleri di Mattera accentuasse questo andamento calmo, lento di una “effusio sanguis”, che non è una drammatizzazione del dolore o del sacrificio umano, bensì la fluenza, o meglio, la dilatazione di una vis vitale (quello del sangue, appunto, condizione primaria dell’esistere biologico) cadenzata da un ritmo nostalgico, perfino di tenerezza melanconica. Questa può infatti alludere alla condizione del trapasso: dal vertice raggiunto (la rubedo, il rosso al culmine del processo trasformativi alchemico) al ritorno all’origine e alla rinascita di un nuovo  successivo ciclo creativo».

           

             

 

 

 

 

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