Gabriele Mattera “Lo spazio del silenzio�, opere 1986-1989

Villa Arbusto, Lacco Ameno

12/09/1989 - 30/10/1989


mostra gallery testi critici catalogo

Il ciclo delle tende di Gabriele Mattera

Vitaliano Corbi

giovedě 20 aprile 1989

Il ciclo delle tende di Gabriele Mattera

 

Lo spazio delle «tende» è il silenzio. Nel ciclo dipinto da Gabriele Mattera dal 1986 allo scorso anno, grandi teli colorati pendono da lunghe aste e paiono ondeggiare lievemente come spoglie abbandonate. Dopo l’ultima partenza degli uomini che innalzarono queste tende, è sceso il silenzio. Non il breve, precario intervallo tra un evento e l’altro, tra ciò che è accaduto e ciò che sta per accadere, tra le voci appena svanite e quelle che stanno per sopraggiungere. Non il silenzio che già annuncia il ritorno, ma il silenzio, profondo e inquietante nella sua assolutezza, in cui si compie la rivelazione.

Lo spazio del silenzio non appartiene al passato né al futuro, poiché nasce dall’interruzione del flusso temporale; è cioè un ritrarsi dell’immagine dal tempo del mondo, che è in realtà un continuo «passare», simile a quello degli eserciti e dei popoli nomadi con le loro tende. Lo spazio del silenzio che circonda, invece, queste tende è fuori del tempo. Qui non c’è un prima e un dopo, poiché le tende di Mattera non saranno mai smontate per essere piantate altrove. Si potrebbe dire che il loro spazio sia lo spazio del presente: di un presente fermato nell’ hic et nunc dell’immagine e perciò divenuto istante in cui può irrompere l’eternità.

Nello spazio del silenzio si rivela la pittura. Non diversamente dalla musica, che deve prima allontanare da sé le voci del mondo perché possa essere pronunciata e riconosciuta. E le tende, in fondo, sono per Mattera ciò che per Morandi erano le bottiglie, sulle quali il pittore bolognese di andare annotando «il contrappunto della musicalità del colore». La tenda, come la bottiglia, è una superficie d’appoggio, su cui l’artista misura e fa vibrare le note cromatiche. Ma mentre Morandi moltiplica questa superficie, creando, nel quadro, una dimensione polifonica che si svolge e risuona su piani diversi che variano per distanze minime ma rigorosamente definite, Mattera la dilata, la trasforma in un unico schermo, che s’allarga e pare voglia occupare tutto il campo visivo. Lo scarto tra la tenda e la superficie sottostante, quella su cui poggia l’intero dipinto, diventa talvolta davvero minimo, poco più d’una scollatura, d’un ripiegarsi degli angoli che lasci scoperto il fondo. In questo modo la tenda può essere metafora, prima ancora che di una condizione esistenziale, della pittura stessa. La superficie della tende raddoppia i livelli dell’immagine. Distesa largamente sul piano del quadro, diventa a sua volta, infatti campo di nuovi eventi pittorici, sottratto maggiormente alle rigide regole della rappresentazione proprio per questo suo porsi ad un secondo, più alto e mediato livello d’espressione.

Luogo, dunque, di rivelazione della pittura, questo che la tenda esibisce in proprio, quasi come esposizione d’un dilatato frammento della pelle, di un lembo palpitante di chissà quale tessuto – dove il colore può mostrarsi con la più straordinaria e libera bellezza fenomenica: dolcemente impastato, in una tessitura di pennellate fitte e sottili che gli donano seriche morbidezze; palpitante ed energetico, irritato e sconvolto da un ductus di violenta gestualità; poi compatto e stratificato in densi spessori matrici o, al contrario, madido di umori e così intenerito nelle fibre da disfarsi in liquescenze e colature; un colore superbo e duttile nella gamma dei rossi, dispiegata dall’accesa, rutilante veemenza dei vermigli alla morbida sensualità dei carnicini; misterioso nella varietà degli azzurri, di quegli abbagliati di luce e sbiancati fino a trapassare nel pallore dei rosa più estenuati, di quelli attraversati dai riflessi di mille altri colori, leggeri e impalpabili, come veli d’ombra nella luce.

 

Intorno alle tende di Mattera c’è sempre un alone luminoso, un chiarore che dirada progressivamente l’ombra circostante e, crescendo, si riverbera in alto, nella notte d’un cielo incombente, o scopre un largo tratto di pittura. Nello spazio del silenzio e della luce che s’apre cos in mezzo all’oscurità si compie – dicevamo – la rivelazione della pittura. Ma non è, questo manifestarsi della pittura a se stessa, nel rimando tra la superficie del quadro e quella della tenda, il trionfo della luce sull’oscurità della vita. È, piuttosto, un disporsi obliquamente tra l’una e l’atra, in modo che il chiarore, crescente fino a raggiungere talvolta – come accade, ad esempio, nel «Paesaggio sulla tenda» –  l’intensità d’una esplosione luminosa, può di nuovo affievolirsi e può l’ombra tornare a incalzare e stringere, nella solitaria spianata, lo spettro della tenda: «Una presenza notturna», suggerisce il titolo d’una delle opere più affascinanti del ciclo, rivelata, si direbbe, solo dall’argenteo rabbrividire delle superfici nell’abbraccio avvolgente dell’oscurità.

È qualcosa di simile alla Lichtung di Heidegger: non è propriamente una nozione filosofica, ma una metafora viva – scrive Pier Aldo Rovatti – capace di incrociare il senso letterale, di radura, spianata, appunto, con moltissimi altri, come quello di silenzio, di chiarore, ma anche di oscurità, di luogo sacro, di rivelazione, ma anche di occultamento. Non sembri strano il riconoscimento, entro il ciclo delle «Tende» di Mattera, di una linea tematica che, se non è certo heideggeriana in senso stretto, presenta tuttavia qualche significativa tangenza con il pensiero del filosofo tedesco. E forse non è tanto la sola metafora della Lichtung a fornire qualche stimolante spunto di riflessione sulla recente pittura di Mattera, quanto l’idea, sviluppata da Heidegger fin dalla conferenza Sull’origine dell’opera d’arte del 1935, che proprio nell’opera d’arte si manifesti il carattere costitutivo della verità, che è rivelazione, apertura e insieme oscurità e occultamento.

 

Nelle «Tende» di Mattera avviene, un processo di rivelazione, un aprirsi dall’oscurità alla luce. Ma ciò che si mostra, rimanendo per sempre sospeso in quel varco sull’eternità, in quell’interruzione del tempo dell’esistenza provocata dalla miracolosa o, se si preferisce, illusoria presenza dell’immagine, non è la pienezza dell’essere, il darsi definito e immutabile della verità. È, invece, s’è già detto, la pittura stessa. Dall’oscurità al chiarore i corpi compiono il loro percorso verso la trasparenza assoluta dell’apparire: che è la meta finale, tuttavia mai veramente raggiunta, cui tende la pittura. Ritornano alla mente alcuni versi di «Potami il girasole…» di Montale, che rendono, con delicatissima e limpida evidenza, l’esperienza di questo liberarsi delle cose dalla loro stessa corporeità e diventare, svanendo colore e musica, con un passaggio che la pittura di Mattera – su tonalità espressive, s’intende, sue proprie e perciò lontane dalla scarna e attonita leggerezza del verso montaliano – sembra riproporre.

«Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Svanire / è dunque la ventura delle venture». La chiusura della strofa suggerisce ancora che questo viaggio verso la luce è un viaggio di felicità. Ma con l’ovvia differenza che la felicità, mentre per il poeta si realizza interamente nel momento dello svanire, nella pittura di Mattera rimane solo come tensione. La pittura si accosta a quel momento conclusivo come al proprio estremo confine, ma ne resta al di qua. La felicità è una promessa lancinante, insistente, che attraversa tutta l’opera dell’artista d’Ischia e preme i più diversi registri espressivi: è una richiesta che conosce l’esultanza gioiosa e la cupa depressione, e che soprattutto noi sentiamo scorrere nei brividi di luce sulla pelle delle tende, lividi, taglienti, freddi, ma più spesso insinuanti, dolci, frementi di piacere entro le fibre del colore.

Nella serie delle «Spiagge», che hanno preceduto quest’ultimo ciclo di dipinti, tra i rari oggetti che interrompono la distesa uniforme della sabbia, compare anche la tenda, semplicissima, fatta solo di un telo sorretto da qualche sottile asta di legno. La tenda, nei dipinti di Mattera, rimane a lungo un particolare compositivo senza grande rilievo, una presenza intermittente e marginale nello scarno repertorio iconografico del nostro artista. Soltanto in un’opera del 1982, che non a caso è intitolata «La tenda blu», essa accenna ad assumere un ruolo di maggiore importanza: infatti, pur rimanendo tutta confinata su un lato del quadro, avanza decisamente verso il primo piano, dove crea, con lo spigolo d’uno dei suoi pali, l’angolo d’una solida gabbia prospettica. A rivederlo oggi, quel quadro, può anche acquistare il valore di un presagio. Ma in realtà, quando poi, nel 1986, la tenda si pianta al centro della composizione, divenendo protagonista in uno spazio che a stento la sopravanza, ci accorgiamo che è accaduto ben altro che un semplice spostamento di obiettivo. La «scena» è cambiata completamente: sono scomparse la spiaggia, l’aria assolata e caliginosa, le rare figure dei bagnanti, con i segni del loro passaggio; ma soprattutto non c’è più quella particolare, insistente e quasi ossessiva situazione atmosferica, che era, certo, notazione acutissima di uno stato d’animo, ma anche di una «esasperata meteorologia stagionale», come allora scrivemmo per sottolineare che la tonalità espressiva dell’immagine sembra nascere da un sentimento della natura assorto e quasi estatico. Queste «Tende», invece, ignorano il corso delle stagioni. L’ora, se pure è possibile riconoscerne una, può essere quella del crepuscolo, più crudele e minaccioso, bruciato nelle ombre del terreno, intorno al livido relitto ondeggiante in «Un oscuro paesaggio di rifiuti», più terso nella chiarità della schiuma che scende sull’elegante geometrie di linee e di piani nella «Luce sulla tenda» o addolcito, persino, da qualche tenerezza pittorica negli impasti degli ocra e dei verdi marci di «Segnale di confine»; o può essere quella d’un pieno meriggio, come in «Un alito di luce» e in «Paesaggio sulla tenda», esploso in un turbinio di luci che trasforma la tenda e il paesaggio in impronte cangianti di colore. Quasi sempre, però, quella delle «Tende» è un’ora notturna, una buia ora di fantasmi: non i fantasmi di povere anime condannate, si dice ad aggirarsi sulla terra, ma quelli generati da noi, dai nostri desideri e dalle nostre paure, messaggeri che salgono dal sottosuolo della coscienza, quando l’io, nel silenzio della notte, si ritira dal mondo.

 

Dalle «Tende» di Mattera viene una sensazione di affollamento esistenziale, vissuto dallo spettatore con uno strano effetto di risucchio, di discesa oltre la superficie di quelle tele, che sembrano guardarti e invitarti come l’occhio torbido di un lago. È, indubbiamente, una sensazione di spoliazione di vita, di perdita di certezze mondane, che ha tuttavia qualcosa di grandioso. Per quanto rovinosa e disperata possa parere la visione di Mattera, si sente in essa il richiamo ad un ruolo «alto» dell’arte, ad un suo destino di sublime e tragico splendore, il riferimento, forse, a quel «mito unificante e fondante, una totalità magari assente, ma la cui ombra sia ancora un grembo fecondo», di cui parla Claudio Magris in Grande stile e totalità. L’ombra della totalità, che aleggia nelle «Tende», non è tanto la memoria, custodita dall’arte, di una realtà originaria o di una mitica primavera del genere umano, cara alla cultura classica, quanto un forte presentimento di morte. Se volessimo di nuovo spostare l’accento verso il pensiero heideggeriano, potremmo parlare di un’acutissima intuizione, da parte di Mattera, del tema dell’«essere per la morte». L’artista non batte, come accade spesso in altri, sul motivo del disfacimento, della corruzione delle cose o del loro inarrestabile tramutarsi. Egli avverte intorno ad esse , alla loro impassibile persistenza, un vento sottile ed arido che le forza lentamente sul confine del nulla; e sa che quel confine, prossimo o remoto che sia, è l’unica certezza su cui si fonda l’esistenza dell’uomo. Anticipare la morte, in questo senso, significa elevarsi ad una visione comprensiva dell’intera esistenza, che, appunto per quella certezza finale che la segna e ne fa una esperienza conclusa, una totalità, non appare più come dispersa nella folla delle infinite possibilità inseguite casualmente dall’uomo.

L’artista, così, non abbandona, però, il terreno dell’arte, anzi vi appunta con più forza la sua attenzione, inarcando, se così si può dire, l’esperienza artistica su se stessa. Infatti, già nella riflessione di Heidegger, il tema dell’esistenza come totalità si raddoppia e si illumina in quello dell’arte, che fa dell’opera non un oggetto tra gli oggetti e neppure un loro illusorio simulacro, ma una realtà che si costruisce fuori dal mondo, poiché apre essa stessa un nuovo mondo ed è appunto progetto del possibile come totalità. Perciò, in Mattera, l’intuizione dell’esistenza come totalità, vissuta attraverso l’anticipazione della morte, non solo possiede l’evidenza grandiosa della scelta nell’autenticità, ma può colorarsi di varie tonalità affettive, non esclusa la gioia che accompagna il lavoro dell’immaginazione quando riesce, nell’opera d’arte, a delineare felicemente i tratti di un suo mondo concluso e autonomo: nello spazio silenzioso delle «Tende», nella lontananza del mondo della realtà, udiamo levarsi il vario «contrappunto della musicalità del colore». L’immagine non è muta, ma ha voci diverse e nuove, che battono sulla superficie della nostra coscienza, vi si immergono e ne scandagliano, risuonando, le oscure profondità.

Nel fantasma della tenda, che grandeggia fluttuando alto sull’orizzonte tra cielo e terra, c’è il segno di un’enorme forza immaginativa, si sente la lenta pressione di un’energia psichica profonda. Si direbbe che le caratteristiche espressive del ciclo pittorico di Mattera forniscano una convincente conferma dell’ipotesi freudiana della regressione controllata, posta a fondamento del processo di creazione artistica, di ciò che si dice comunemente l’ispirazione: la quale è in realtà un «gioco» alterno e rischioso, tra l’es e l’io, tra il mondo luminoso della coscienza e quello delle più oscure passioni. A questo gioco, che somiglia – è stato osservato – alla corsa del delfino, che affonda e riemerge dalla superficie del mare, l’artista si abbandona consapevolmente, lasciando che nella sua fantasia irrompano i contenuti del processo primario, da una parte, e sollecitando, dall’altra, il controllo cauto, ma deciso della ragione. Le immagini che ne risultano non appaiono incomprensibili e sfuggenti come quelle del sogno (quando ancora non sono state sottoposte al difficile lavoro dell’interpretazione), ma come quelle, possiedono il carattere della condensazione che si manifesta con l’inesauribile ricchezza di sensi e di risonanza affettive proprie di ogni vera opera d’arte.

Nel ciclo delle «Tende» la pittura di Mattera tocca altezze poetiche inconsuete, sbocca su una vertiginosa apertura, di una drammaticità visionaria oggi difficilmente uguagliabile. La sua strada, non c’è dubbio, passa lontana da ogni indulgenza narrativa, non si snoda in lente perlustrazioni, ma punta decisamente molto in alto, con un tratto di orgogliosa fierezza e, ad un tempo, di dolce, stordita malinconia. Le tende sono spoglie vuote, sono vessilli consunti e lacerati, sono trofei levati contro il cielo in una terra abbandonata dagli uomini: segnali non più di vittorie, ma di assenze definitive. Esse, tuttavia, hanno il potere di convocare attorno a sé altre immagini, si colorano del loro ricordo, se ne lasciano penetrare. Il «come» che compare spesso nei titoli delle opere di Mattera non tanto introduce una similitudine, quanto annota il processo di sovradeterminazione condensato nell’immagine pittorica; è il segno, perciò, della consapevolezza, nell’artista, del cerchio di sensi e di affetti che s’allarga intorno alla sua opera. Per l’alone – non solo di luce, dunque – che circonda le tende di Mattera sembrano ingigantirsi e riempire lo spazio. «Come una fetta di luna in una notte d’inverno» ha intitolato l’artista uno dei suoi quadri: una fetta di luna caduta sul prato, dal cielo basso sull’orizzonte, e divenuta, mentre la vedevano roteare silenziosamente verso do noi, enorme, bella si e invitante, per la straordinaria morbidezza della sua materia, ma mostruosamente dilatata, gravida di una luce pallida ed umida, quasi un’immagine dolcissima e ambiguamente paurosa di un grande ventre materno. Ma poi la densità dei sensi e dei rimandi visivi la deforma nella sagoma di una vascello che ondeggi nell’aria, simile a quello mostrato sarcasticamente tra le nuvole da Amleto ai suoi non più fidati compagni, simile anche all’altro, reclinato sulla spiaggia, che Mattera ci fa intravedere nel luogo, elegantissimo profilo della tenda, nel dipinto che non a caso si intitola «In secca». «Come una sacca di carne vuotata e dimenticata» è un’opera di eccezionale felicità cromatica, matissiana quasi, ma con una pennellata densa e spavalda che insinua, in questa tenda divenuta una sorta di brandello anatomico, la sensazione della vita ancora pulsante. E, ancora, «Come un trofeo abbandonato», accompagnato grevemente nell’azzurro della notte, da cui manda corruschi e inquieti riflessi, e «Come una medusa», la più stravolta e disfatta delle tende: un grondante corpo gelatinoso, fremente, nelle pennellate e nei rivoli di colore, di una strana, gelida e perversa sensualità; lo diresti un quadro del bue rembrandtiano lasciato a macerare e a sciogliersi in un esangue notte lunare.

I fantasmi del «possibile» che popolano le tele di Mattera sono gli oggetti immaginari di paure e di desideri attaccati alla radice della vita. Ma l’arco del possibile non si tende nel vuoto, ha i suoi punti di appoggio nei termini estremi che definiscono la nostra esistenza. Si comprenderà, allora, perché nelle opere di Mattera la tenda possa parere placenta e sudario: involucro da cui l’uomo nasce alla vita, involucro dove infine lo accoglie la morte.

 

Napoli, Aprile 1989

 

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