Gabriele Mattera alla Torre Guevara di Ischia

Torre di Guevara . Ischia

20/09/2003 - 26/10/2003


mostra gallery testi critici catalogo

Il tempo della Pittura

Vitaliano Corbi

marted́ 10 maggio 2005

Pescatori

All’avvio degli anni cinquanta, quando Gabriele Mattera s’affacciò sulla scena dell’arte, Ischia viveva una stagione culturale particolarmente felice, nel segno di un “cosmopolitismo umano ed artistico” che avendo in Gilles, Bargheer e Lélo Fiaux i suoi protagonisti si arricchiva dell’apporto dei migliori artisti locali, come Antonio Mascolo, Luigi De Angelis e Bolivar, e di altre più giovani ma già incisive presenze, come quelle di Gino Coppa e Leonardo Cremonini, che allora trascorreva nell’isola frequenti e lunghi periodi . E’ difficile dire quanto della vigorosa ed aspra disposizione espressiva con cui si presenta al suo esordio Gabriele Mattera possa essere derivata dalla diffusione, in ambito strettamente ischitano, di modi pittorici di decisa inflessione espressioni-sta. Quel che si ricava dalle poche opere superstiti di quegli anni fa tuttavia capire chiaramente che il giovane pittore non mirava a risultati di facile contentatura provinciale, proprio perché egli era in grado di intercettare, in situ, quelle solleci-tazioni che aprendosi su un orizzonte di cultura europea lo aiutavano ad accostare gli aspetti più duri della realtà senza dover passare per i luoghi comuni del folklore e l’angustia delle tradizioni locali. Paolo Ricci, oltre a fornire alcune precise indicazioni critiche, nella direzione dell’e-spressionismo nordico, di ispirazione sociale, ha tracciato un efficace ritratto dell’artista, collocandolo sullo sfondo del Castello Aragonese e di alcune dolorose vicende che vi si svolsero al tempo della seconda guerra mondiale. Egli, riportando le parole con cui Mattera ricordava la sua infanzia “trascorsa giocando e fantasticando in un’atmosfera particolarissima e in uno scenario unico, fatto di vecchie chiese gotiche e barocche cadenti, di grandi edifici senza finestre (dimore di poeti e regnanti) e di oscuri cimiteri e cripte misteriose e piene di ombre”, ha dato grande risalto al contrasto tra quest’ambiente inquietante, in cui l’artista è nato e si è formato, e “la splendida e fragrante bellezza della veduta dell’isola che si dominava dall’alto in tutta la sua incredibile ricchezza e varietà dei motivi paesistici”, rimasta sostanzialmente sempre estranea al mondo pittorico di Mattera . Già due anni prima, nel 1976, Malagoli, dopo aver chiarito che quella di Mattera non era mai stata, neppure agli esordi, una forma di arte primitiva, naïf, ma al contrario intimamente coinvolta nella dimensione storica della cultura artistica, aperta al dialogo sia con i grandi maestri del passato sia con le correnti più significative dell’arte contemporanea, e tuttavia capace di conquistarsi una posizione di consapevole e quasi orgogliosa autonomia, aveva individuato la radice di questa capacità nel fatto che l’artista aveva compiuto la propria formazione entro “una dimensione solenne ed austera”, dalla quale il suo animo avrebbe poi sempre continuato a trarre non occasionali pretesti iconografici, ma un’ispirazione profonda e potente . Malagoli aveva definito quella di Mattera “pittura insita”, volendo indicare un rapporto non di rispecchiamento, ma di intima germinazione, tra “un destino esistenziale liberamente accettato” e le immagini dell’arte che ne erano nate come un fiore dal proprio terreno . Anche a voler fare la tara ad una lettura forse troppo centrata sul rapporto tra l’opera e la biografia dell’artista, tra la drammatica visione del mondo che in quell’opera si esprime e la suggestione di un ambiente carico di memorie storiche e di leggende, caratterizzato dalla presenza del Castello , divenuto kafkianamente, nelle pagine di certa critica, metafora minacciosa del potere, non è tuttavia privo d’interesse il fatto che Ricci ponga a fondamento delle scelte artistiche di Mattera un profondo e coerente pessimismo esistenziale: “La cosa certa è che Mattera, da quando ha incominciato a dipingere, all’età di venti anni, non ha mai rivolto la sua attenzione al paesaggio nei suoi aspetti più splendenti, ma ha improntato la sua ricerca sull’uomo, in un primo tempo sui poveri pescatori che sostavano disfatti dalla fatica e dall’insonnia, dopo una notte trascorsa in una barca insicura, e successivamente su particolari aspetti del costume e del lavoro degli umili; la riparazione delle barche, l’innocente gioco delle carte, il modo di guardare, con lo sguardo assente, l’oriz¬zonte e infine il tipico gesto di ap-poggiare le grosse mani piagate dalla sal-sedine e dal freddo e dallo sforzo di rema-re, sulle gambe” . Con i dipinti dei pescatori e dei giocatori di carte, con i ritratti e le nature morte di fiori e di cactus Mattera approda, nel corso degli anni sessanta, ad una piena maturità espressiva, capace di declinare l’originaria matrice espressionista nei modi personali di una forma non aggredita e stravolta dall’impe¬to dei sentimenti, ma sottoposta nella sua ieratica, solenne fissità a un processo di ispessimento materico e, insieme, di sfibramento e di consunzione, contenuto, però, entro una salda intelaiatura compositiva. Malagoli ha descritto efficacemente questo processo, soffermandosi sulla “incisività del segno, che rinserra figure di potente corposità”, sullo “spessore della crosta del colore, spesso arido e aggrumato come un intonaco”, e lo ha messo in rapporto con una “forte esperienza emozionale della realtà” . Il ciclo dei Pescatori dà corpo ad una visione drammatica della vita. Gli uomini di Mattera, gravati dalla mole dei loro corpi, stanno nella penombra delle barche dalle alte sponde come in una tana. La tipologia di questi personaggi e la severa monumentalità della pittura che non concede nulla alle epidermiche piacevolezze del colore possono far pensare a Permeke o al Sironi più scabro e incupito . Certo è che l’asprezza di una faticosa condizione di vita, oppressa da un cielo incombente, non è diluita nella descrizione dei dettagli, ma è energicamente rappresentata con una pittura di grosso ed asciutto impasto materico, mantenuta su gamme cromatiche basse, di bruni caldi e terrosi. Il senso della posizione di Mattera, come di altri artisti - e tra i napoletani vanno ricordati almeno Perez e Waschimps - impegnati negli anni sessanta a sondare l’attualità di una cultura d’immagine imperniata sulla centralità dell’esperienza espressionistica, va anche considerato in rapporto agli avvenimenti di quel decen-nio: “pare quasi – ha scritto, infatti, Spa-doni - che Mattera reagisca al clima artistico diffuso, in quegli anni, tra una chiassosa e invadente iconografia da mass media, recuperi enfatizzati di un’oggettualità del quotidiano, e i rigori razionalistici, analitici, le riduzioni ad una progettualità o ad elaborazioni tutte mentali… Caricando espressionisticamente gli accenti, Mattera cerca il massimo di forza rappresentativa e di tensione morale, di evidenza e di essenzialità dei mezzi pittorici, con la sostanziale monocromia degli spessori materici” . Bagnanti Dal ciclo dei Pescatori si passa, circa un decennio dopo, a quello dei Bagnanti. In un suo saggio del 1996 Angelo Trimarco ha visto nella pittura di Mattera "la lentezza, la durata, la serie" e ha osservato che "la durata - questo tempo che scorre lento - concentrata nelle serie della pittura di Mattera, ci ricorda come questo modo di dipingere ha ritmi, cadenze, scansioni, rigori così diversi dalla forma dell'opera singola. E' una differenza di tempo, appunto. In gioco c'è proprio il tempo come attimo e il tempo come durata". Questo modo di lavorare per cicli allarga il tempo della pittura oltre quello della singola opera e dà all'autore l'impressione di poter controllare il filo della rete che egli viene tessendo, di impedire l'effetto di usura e di sfilaccia-mento, che il tempo provoca sulla pittura come sulla vita. Allora la serie - e la successione delle serie - "finisce col coin-cidere con il vissuto stesso dell'artista, coi suoi rovelli e le sue ansie, ma anche con le sue speranze. E speranza suprema è che la pittura sia un evento che racchiuda in sé, in un estremo sacrificio, la natura e il linguaggio, il vivere e l'ombra che sempre l'accom¬pagna". Così la pittura, ritirandosi in se stessa, quasi facendo cerchio per meglio resistere al rumore del mondo, ritrova il contatto con la vita, diventa anzi il luogo dove questa si rivela nella sua autenticità esistenziale. Per Gabriele Mattera la strategia di so-pravvivenza della pittura si attua, dunque, attraverso la figura della spirale: una successione di opere, legate tra di loro non solo tematicamente, che sembra procedere con un andamento circolare, ma che elude il momento della chiusura spostandolo continuamente avanti. I Pescatori, i Bagnanti e le Spiagge, le Tende, gli Uomini nella natura e gli Uomini in rosso segnano il passaggio da un ciclo all'altro e il progredire di una ricerca che intreccia fili diversi e conosce pause e accelerazioni, ma che è priva di sostanziali cesure. Nelle prime opere del ciclo, dipinte intor-no al 1973, i bagnanti occupano quasi sempre i primi piani. L'artista scruta da vicino i suoi personaggi e ne indaga i tratti fisionomici con una incisività venata di intenzioni critiche, se non proprio di polemica sociale, cui forse non è estraneo l'esempio della Neue Sachlichkeit. Questo momento della pittura di Mattera ha sollecitato particolarmente la sensibilità di Paolo Ricci, che ha scritto su di esso alcune delle sue migliori pagine, in cui pare di vedere animarsi quei personaggi che “si aggirano smarriti sulla spiaggia deserta o si immergono senza entusiasmo in un mare privo di trasparenze, grigio, torbido, sotto un cielo brumoso che solo di rado lascia filtrare un pallido raggio di sole” . La puntualità della critica alla società consumistica non si traduce in un’astratta condanna ideologica, ma rimane aderente all’opera pittorica, con un riscontro incisivo, a tratti spietato, che aiuta a cogliere la pregnanza, anche emotiva, che il pittore è riuscito a condensare nella complessità strutturale dell’imma¬gine, ben oltre l’ap-parente ovvietà del dato figurale: “Nei loro costumi da bagno e le ridicole cuffiette che dovreb¬bero riparare da quel sole che non c’è, essi portano in giro, spudoratamente il loro adipe, le loro gambe enfiate, gli stomachi dilatati e soprattutto la loro noia, la loro angoscia. A tanto la civiltà dei consumi li ha ridotti: a sentirsi infelici, schiavi, anche a contatto con la natura. Essi recano in sé i vapori pestilenziali delle grandi città, le metropoli industriali del Nord Europa, lo smog e l’atmosfera alienante della urbanizzazione selvaggia” . La lettura dei Bagnanti diventa convincente soprattutto quando Ricci intuisce, nella pittura di Mattera, il passaggio da una corrosiva rappresentazione del mondo, sostenuta da un severo giudizio morale, a una visionarietà tragica, in cui i processi storici e i mali della società appaiono grandiosamente fis¬sati e stravolti dalla percezione dell’ineluttabilità del destino: “Ciò che colpi¬sce nell’ultima produzione di Mattera, sia pure tenendo conto di alcune variazioni stilistiche, disegnative e cromatiche tra un dipinto e l’altro, è il senso immobile e composto della visiona-rietà. La figura umana è sempre stempera-ta nell’aria greve che, come una coltre di piombo, preme sul mare, sugli oggetti e sui personaggi, isolati e distanti, incomunicabili. Queste opere sono permeate da un sentimento di tragica ineluttabilità, le figure umane appaiono rivolte verso un punto dello spazio dove probabilmente avvertono la presenza di ‘qualcosa’; qualcosa che metaforicamente esprime il destino, il potere, che condizionano il comportamento degli uomini, nella presente società alienan-te” . Avvicinandosi la metà del decennio, nei dipinti dei Bagnanti si andrà spegnendo l’asprezza iniziale del giudizio morale e subentreranno toni all’apparenza più pacati, ma segnati in realtà, come s’è detto, da un’ancora più radicale e desolata consapevolezza esistenziale. Questo graduale ma nitido passaggio è stato da me segnalato nel catalogo di una mostra del 1985 e, nella stessa occasione, più dettagliatamente descritto da Solmi, che ha messo in risalto lo scarto linguistico che divide i Bagnanti tra le pietre del 1973 e Tra le rocce, dell’anno successivo, dalle opere dipinte dal 1975 in poi . In questa seconda fase dei bagnanti Mattera si affida a più ampie partiture spaziali, a scansioni compositive sfoltite di particolari e tali da consentire al colore di acquistare, nella semplificata geometria dei piani, una morbida e diffusa vibrazione luminosa . Arretrando il suo punto d'osservazione, egli si colloca ad una distanza da cui la realtà gli appare in una visione di ampiezza sconfinata. Sono spiagge aperte su orizzonti lontani, dove l'assolata distesa sabbiosa si confonde con quella del mare, una striscia tinta d'azzurro così incerta e scialbata da sembrare sul punto di svaporare del tutto nella calura afosa dell'estate. Quel che si rivela non è lo spettacolo di un mondo da perlustrare nelle sue innumerevoli e mutevoli forme di vita, ma il fascino del respiro grandioso della natura. I per-sonaggi dell'artista ischitano, nel loro appartarsi in un'attesa inerte che non conosce risposte, ma non pone neppure domande sono diventati i muti testimoni di questo spettacolo e si direbbero sopraffatti dall’intuizione di una realtà che trascende e domina l'esistenza u-mana. I dipinti che concludono il ciclo dei Ba-gnanti si sarebbe tentati di chiamarli pro-priamente “spiagge” o “marine”. Degli elementi iconografici iniziali, che avevano continuato a caratterizzare questo ciclo ancora lungo tutto il corso degli anni set-tanta, rimane ben poco: qualche esile, sfu¬mata figura d'uomo, qualche corpo sdraiato al sole, sulla spiaggia, da cui si distingue appena per la sottolineatura d’un filo d'ombra. I bagnanti non sono più i protagonisti della pittura di Mattera. Chiusi nel loro silenzioso isolamento, essi continuano a vivere qui una condizione inerte e stordita, un rapporto margi¬nale e straniato con il grande spazio della natura. Le figure senza volto delle ultime opere del ciclo non esprimono il senso d'una presenza reale nel mondo, ma danno l'impressione di essere apparizioni momentanee, immagini preca¬rie che, nell'estremo ba¬luginante bagliore dei sensi, stanno per varcare la soglia dell'as-senza. Protagonista della pittura di Mattera è diventata la durata insostenibile, ossessiva di una luce meridiana che, immo¬bile e insistente, ha dilavato e sfaldato quegli stessi personaggi che un tempo, esibendo con protervia la loro larga e squadrata solidità o salvando dall'assalto dalla luce un nucleo di denso plasticismo, potevano sembrare gli ultimi esemplari, certo un po' sfiancati e smarriti, di un'antica stirpe italica, discesa da Giotto fino al nostro Novecento. Protagonista della pittura di Mattera è l'aria caliginosa d'una interminabile, torrida giornata d'estate, che avvolge tutto nel suo spessore umido, e assorbe la luce, la filtra e la rimanda con mille riverberi che abbagliano e sfocano la vista. Eppure, proprio nella capacità dell'artista di sentire intensamente, di accogliere totalmente dentro di sé questa situazione atmosferica particolare, e direi persino di esasperata meteorologia stagionale, è la ragione principale che fa di questi dipinti, dove quasi null'altro si vede che il cielo e la terra, qualcosa di molto lontano dal genere pittorico del paesaggio. Queste non sono realmente vedute di paesi e luoghi di mare. L'impal-catura compositiva più semplice che si possa im¬maginare, con i due piani del cielo e della terra accostati e incardinati sulla linea dell'orizzonte, sostiene uno scenario disadorno, dove non sono certo le rare larve dei ba¬gnanti a introdurre una nota di vita. Lo spazio vuoto si riempie d'una ondata afosa, opprimente ma viva, quasi l'alito caldo della natura sulla nostra pelle. L’andamento ciclico della ricerca artistica di Mattera dà l’impressione a chi segua da vicino la successione delle opere di una ininterrotta continuità, dove le novità tematiche e linguistiche non intervengono mai attraverso inaspettate fratture, ma sono il risultato di graduali trasformazioni, di piccoli mutamenti che di quadro in quadro possono anche sfuggire. Il passaggio da un ciclo all’al¬tro è preparato e si direbbe annunciato da una serie di significativi segnali. Questo modo di procedere senza sobbalzi e conservando nella fase successiva alcuni degli elementi, anche formali, che avevano caratterizzato la fase precedente, è particolarmente evidente nei disegni. Franco Solmi, ad esempio, ha fatto notare come nei fogli degli studi e nelle carte acquarellate degli Amanti e delle Spiagge il disegno resiste nella sua “aggressiva plasticità”, anche quando sembra che l’artista voglia dissolverlo in valore atmo-sferico . Tende Anche il passaggio dalle spiagge assolate dei Bagnanti alle radure delle Tende avviene senza fratture, con una continuità che lega strettamente un ciclo all'altro. L'artista continua a muoversi nei suoi luoghi abituali, che sono quelli tipici del paesaggio mediterraneo. Ma il suo sguardo, cercando altre inquadrature, si ferma su un motivo che fino allora era parso secondario. La tenda era infatti comparsa in alcuni dipinti dei Bagnanti, ma in una posizione marginale, spesso come una quinta a lato della scena principale. Quando, nel 1986, essa conquista il centro del quadro e diventa protagonista incontrastata, alla luce afosa della spiaggia si sostituisce la penombra silenziosa della radura. Grandi teli colorati pendo¬no da lunghe aste e paiono ondeggiare lievemente come spoglie abbandonate. Dopo la partenza degli uomini che innalzaro¬no queste tende, è sceso il silenzio . Nello spazio del silenzio si rivela la pittura. Non diversamente dalla poesia, che deve allontanare da sé le voci del mondo perché possa essere pronunciata e riconosciuta. Le tende sono per Mattera ciò che per Morandi erano le bottiglie, sulle quali il pittore bolognese diceva di andare annotando “il contrap¬punto della musicalità del colore”. La tenda, come la bottiglia, è una superficie d'appoggio, su cui l'artista misura e fa vibrare le note cro¬matiche. Ma mentre Morandi moltiplica le superfici, creando nel quadro una dimensione polifonica con piani che variano per distanze minime ma rigorosamente definite, Mattera tende a trasformare la tenda in un unico schermo, che s'allarga e pare voglia occupare tutto il campo visivo . Lo scarto tra la superficie della tenda e lo spazio circostante, quello dell'intero dipinto, è talvolta davve¬ro minimo, poco più d'una scollatura, d'un ripiegarsi degli angoli che lasci scoperto il fondo. Distesa lar-gamente sulla superficie del quadro, fin quasi a coincidere con essa, la tenda diventa a sua volta campo auto¬nomo di nuovi e più liberi eventi pittorici. Quadro nel quadro e perciò metafora della pittura stessa. Luogo, dunque, di rivelazione della pittu-ra, questo che la tenda esibisce in proprio, quasi come esposizione d'un dilatato fram¬mento di pelle, di un lembo palpitante di chissà quale tessuto placenta o sudario dove il colore può mostrarsi con la più straordinaria e libera bellezza fenomenica: dolcemente impasta¬to, in una tessitura di pennellate fitte e sottili che gli donano se¬riche morbidezze; pal¬pitante ed energico, irritato e sconvolto da un ductus di violen-ta gestualità; poi compatto e stratificato in densi spessori materici o, al contrario, ma¬dido di umori e così intenerito nelle fibre da disfarsi in liquescenze e colature; un colore superbo e duttile nella gamma dei rossi, dispiegata dalla accesa, rutilante vee¬menza dei vermi¬gli alla morbida sensualità dei carnicini; misterioso nella varietà degli azzurri, di quelli abbagliati di luce e sbian¬cati fino a trapassare nel pallore dei rosa più estenuati, di quelli più cupi e spro¬fondati nell'ombra; tripudiante nel rime¬scolio dei bianchi attraversati dal riflessi di mille altri colori, leggeri e impalpabili, co¬me veli d'ombra nella luce. Intorno alle tende di Mattera c'è spesso un alone luminoso, un chiarore che dirada progressivamente l'ombra circostante e, crescendo, si riverbera in alto, nella notte d'un cielo incombente, o scopre un largo tratto di pianura. Nello spazio del silenzio e della luce che s'apre così in mezzo all'o-scurità si compie dicevamo la rivelazione della pittura. Ma questo manifestarsi della pittura a se stessa, nel rimando tra la superficie del quadro e quella della tenda, non segna il trionfo della luce sull'oscurità. E', piuttosto, un disporsi obliquamente tra l'una e l'altra, in modo che il chiarore crescente possa arrivare a far presentire il trionfo di una luce assoluta, come accade, ad esempio, nel Paesaggio sulla tenda. Poi l'ombra torna a incalzare e stringere, nella solitaria spianata, lo spettro della tenda: Una presenza notturna, suggerisce il tito¬lo d'una delle opere più affascinan¬ti del ciclo, rivelata, si direbbe, solo dall'argenteo rabbrividire delle superfici nell'abbraccio avvolgente dell'oscurità . La radura in cui sorge la tenda di Mattera è qualcosa di simile alla Lichtung di Heidegger: una metafora viva, capace di incrociare il senso letterale, di radura, spian¬ata, appunto, con moltissimi altri, come quello di silenzio, di chiar¬ore, ma anche di oscurità, di luogo sacro, di rivelazione, ma anche di occultamento . Non sembri strana la presenza, nel cicl¬o delle Tende di Mattera, di una linea tematica che, se non è certo heideggeriana in senso stretto, presenta tuttavia qualche significativa ¬tangenza con il pensiero del filosofo tedesco. E forse non è tanto la sola metafora della Lichtung a fornire qualche stimolante spunto di riflessione sulla recente pittura di Mattera, quanto l'idea, sviluppata da Heidegger fin dalla conferenza Sull'origine dell'opera d'arte del 1935, che proprio nell'opera d'arte si manifesti il carattere costitutivo della verità, che è rivelazione, apertura e insieme oscurità, nascondimen-to. Nella serie delle Spiagge, che hanno prece-duto il ciclo delle Tende, tra i rari oggetti che interrompono la distesa uni¬forme della sabbia, compare la tenda, semplicis-sima, fatta so¬lo di un telo sorretto da qualche sottile asta di legno. La tenda, nel dipinti di Mattera, rimane a lungo un par-ticolare compositivo sen¬za grande rilievo nello scarno repertorio iconografico del nostro artista. Soltanto in un'opera del 1981, che non a caso è intitolata La tenda blu, essa accenna ad assumere un ruolo di maggiore importanza: infatti, pur rima-nendo tutta confinata su un lato del qua-dro, avanza decisamente verso il primo piano, dove crea, con lo spigolo d'uno dei suoi pali, l'angolo d'una solida gabbia prospettica. A rivederlo oggi, quel quadro, può anche acquistare il valore di un presagio. Ma in realtà, quando poi, nel 1986, la tenda si pianta al centro della composizione, divenendo protagonista in uno spazio che la scena è cambiata completamente: sono scomparse la spiag-gia, l'aria assolata e caliginosa, le rare figure dei bagnanti con i segni del loro passaggio; ma soprattutto non c'è più quella insistente, ossessiva situazione atmosferica, che era no¬tazione certo acutissima di uno stato d'animo, ma anche di una particolare meteorologia stagionale, come allora scrivemmo. Le Tende ignorano il corso delle stagioni. L'ora, se pure è possibile riconoscerne una, può essere quella del crepuscolo, più cru¬dele e minaccioso, bruciato nelle om-bre del terreno, intorno al livi¬do relitto ondeggiante in Un oscuro paesaggio di rifiuti, più terso nella chiarità della schiuma che scende sull'elegante geometria di li¬nee e di piani nella Luce sulla tenda o addolcito, persino, da qual¬che tenerezza pittorica negli impasti degli ocra e dei verdi marci di Segnale di confine; o può essere quella d'un pieno meriggio, co¬me in Un alito di luce e in Paesaggio sulla tenda, esploso in un turbinio di luci che trasforma la tenda e il paesaggio in impronte cangianti di colore. Quasi sempre, però, quella delle Tende è un'ora notturna, una buia ora di fantasmi: non i fantasmi di povere anime condannate, si dice, ad aggirarsi sulla terra, ma quelli generati da noi, dal nostri desideri e dalle nostre paure, messaggeri che salgono dal sottosuolo della coscienza, quando l'io, nel silenzio della notte, si ritira dal mondo. Dalle Tende di Mattera viene una sensazione di affondamen¬to esistenziale, vissuto dallo spettatore con uno strano effetto di ri¬succhio, di discesa oltre la superficie di queste tele che sembrano guardarti e invitarti come l'occhio torbido di un lago. E', indubbia¬mente, una sensazione di spoliazione di vita, di perdita di certezze mondane, che ha tuttavia qualcosa di grandioso. Per quanto rovi¬nosa e disperata possa parere la visione di Mattera, si sente in essa il richiamo ad un ruolo “alto” dell'arte, ad un suo destino di subli¬me e tragico splendore, il riferimento, forse, a quel “mito unifican¬te e fondante, una totalità magari assente, ma la cui ombra sia ancora un grembo fecondo”, di cui parla Claudio Magris in Grande stile e totalità. L'ombra della totalità, che aleggia nelle Tende, non è tanto la memoria, custodita dall'arte, di una realtà originaria o della mitica primavera del genere umano, cara alla cultura classica, quan¬to un forte presentimento di morte. Se volessimo di nuovo sposta¬re l'accento verso il pensiero heideggeriano, potremmo parlare di un'acutissima intuizione, da parte di Mattera, del tema dell'“essere per la morte”. L'artista non batte sul motivo del disfacimento, della corruzione delle cose o del loro inar¬restabile tramutarsi. Egli avverte intorno ad esse, alla loro apparente persistenza, un vento sottile ed arido che le forza lentamente sul confine del nulla; e sa che quel confine, prossimo o remoto che sia, è l'unica certezza su cui fonda l'esistenza dell'uomo. Anticipare la morte, in questo senso, significa elevarsi ad una visione compren¬siva dell'intera esistenza, che, appunto per quella certezza finale che la segna e ne fa una esperienza conclusa, una totalità, non appare più come dispersa nella folla delle infinite possibilità inseguite ca¬sualmente dall'uomo. Nel ciclo delle Tende la pittura di Mattera sbocca su una vertiginosa apertura visio-naria. Le tende sono spoglie vuote, sono vessilli consunti e lacerati, sono trofei levati contro il cielo in una terra abbando-nata dagli uomini: segnali non più di vittorie, ma di assenze definitive. Esse, tuttavia, hanno il potere di convocare attorno a sé altre imma¬gini, si colorano del loro ricordo, se ne lasciano penetrare. Il “come” che compare spesso nel titoli delle opere di Mattera non tanto introduce una similitudine quanto annota il processo di sovradeterminazione condensato nell'immagine pittorica; è il segno, perciò, della consapevolezza, nell'artista, del cerchio di sensi e di affetti che s'allarga intorno alla sua opera. Per l'alone non solo di luce, dunque che le circonda le tende di Mattera sembrano ingigantirsi e riempire lo spazio. Come una fetta di luna in una notte d'inverno: una fetta di luna caduta sul prato, dal cielo basso sull'orizzonte, e divenuta, mentre la vedevamo rotolare silenziosamente verso di noi, enorme, bella sì e invitante, per la straordinaria morbidezza della sua materia, ma mostruosamente dilatata, gravida di una luce pallida ed umida, immagine dolcissima e ambiguamente paurosa di un grande ventre materno. Ma poi la densità dei rimandi visivi la deforma nella sagoma di un vascello che ondeggi nell'aria, simile a quello che Amleto indicava sarcasticamente, tra le nubi, al suoi non più fidati compagni, simile anche all'altro, reclinato sulla spiaggia, che Mattera ci fa intravedere nel lungo profilo della tenda, nel dipinto che non a caso s'intitola In secca. Come una sacca di carne vuotata e dimenticata è un'opera di eccezionale felicita cromatica, matissiana quasi, ma con una pennellata densa e spavalda che insinua, in questa tenda divenuta una sorta di brandello anatomico, la sensazione della vita ancora pulsante. E, ancora, Come un trofeo abbandonato, accampato grevemente nell'azzurro della notte, da cui manda corruschi e inquieti riflessi, e Come una medusa, la più stravolta e disfatta delle tende: un grondante corpo gelatinoso, fremente, nelle pennellate e nel rivoli di colore, di una strana, gelida e perversa sensualità; lo diresti un quarto del bue rembrandtiano lasciato a macerare e a sciogliersi in una esangue notte lunare. Uomini nella natura Hans Christoph von Tavel, presentando al Kunstmuseum di Berna il ciclo delle Tende di Mattera, ha osservato che l'italiano "tenda" non va tradotto col tedesco "Zelte", poiché in tal modo non si rende adeguatamente la precarietà di quei semplici teli che nei dipinti del pittore ischitano appaiono sospesi su esili pali come momentaneo riparo dal sole o dal vento. Che non fosse solo un puntiglio linguistico è apparso chiaro dalle opere successive. Infatti, l'instabile provvisorietà già avvertita da von Tavel è diventata di tutta evidenza nelle ultime tele del ciclo, dove le tende appaiono immerse ed intricate nella vegetazione, talvolta lacerate e ridotte a brandelli tra scaglie di cielo e di terra. Ma ora anche il paesaggio è cambiato. Sconvolto e furiosamente arruffato, sembra contendere alla tenda, segnale della pre-senza umana, il ruolo di protagonista. In realtà, sfibrando le tende e facendole penetrare dal paesaggio, Mattera ha creato una situazione suggestiva, che fonde in immagini di drammatica bellezza aspetti diversi della vita della natura e dell'uomo, e ha inaugurato una sua felice stagione, che può dirsi neoinformale, anche perché attraversata profondamente da quei temi della precarietà e della finitezza dell'esistenza che furono propri dell'Informale storico. A questi esiti della pittura di Mattera non è estranea la coscienza di una condizione sempre meno garantita da certezze ideologiche, ma aperta con stupore all'esperienza del mondo. Allo sconvolgimento della scena pittorica ha contribuito l'affacciarsi d'una folla di inquietudini, che squarciando il silenzioso velo notturno che prima avvolgeva le tende ha fatto venire alla luce un'immagine della natura più fresca e persino violenta nell'impatto dei sensi. Un sentimento panico della vita ha liberato una pennellata dal ductus fremente e un colore di forte risonanza timbrica. L'approdo a una pittura di uno splendore fenomenico tanto più intenso quanto più sentito come valore momentaneo e irrepetibile è stato possibile perché la tenda, nel suo farsi tramite di un parti-colare sentimento della vita, era stata fin dall'inizio anche metafora della pittura stessa, quando, in alcuni dei primi quadri del ciclo, ricopriva quasi del tutto la superficie dipinta, richiamando così l'at-tenzione sulle qualità sensibili di questa . In alcune opere del '92 c'è il preannuncio di un ulteriore passaggio. Gli impalpabili ma sontuosi colori di un'enorme farfalla notturna che occupa l'intero campo visivo o l'asfissiante infittirsi della vegetazione che assedia e lacera la tenda, trasforman-dola in un eccitato groviglio di carne e di piante, inscenano lo spettacolo del preca-rio eppure meraviglioso rivelarsi dell'arte e della vita. Dai brandelli palpitanti della tenda si viene ricomponendo una solitaria presenza d'uomo, immersa e avviluppata nell'intrico della natura, divenuta anzi una sola cosa con questa, fino a impastare il corpo e le vesti con il colore delle piante e a rompere il volto in grumi e scaglie di luce. Nello splendore del colore la pittura sembra sul punto di riassorbire in sé l’ultima sembianza dell’uomo. Da molti anni la ricerca pittorica di Ga-briele Mattera procede con passo costante e sicuro . C'è bisogno di una particolare attenzione per accorgersi del susseguirsi di piccole modifiche tematiche e di leggeri spostamenti linguistici che accompagnano il rinnovarsi di una tensione espressiva affondata nella concretezza dell'immagine e perciò mai esibita sulla pelle di questa. Eppure, ripensando alla pittura di Mattera dagli anni cinquanta ad oggi, ci si accorge che questa sua forza di persistenza, questo suo respiro lungo non è un uniforme scor-rere nel tempo, ma ha un ritmo preciso, scandito - com’è stato già detto - dalla successione dei grandi cicli. Ogni ciclo si svolge con pause e accelerazioni diverse, e con un movimento complessivo che sul punto di esaurirsi, al chiudersi appunto del ciclo, si rialza e riprende più largo ed arioso. Così dai Pescatori, dove gli uomini gravati dalla mole dei loro corpi stanno, come in una tana, nella penombra delle barche dalle alte sponde, alle ultime opere che si potrebbero chiamare i dipinti del Ciclo rosso, l'orizzonte della pittura di Mattera s'è via via allargato e lo sguardo s'è spostato dalla terra verso la luce, dove i corpi non hanno spessore né peso e sono soltanto tracce d'ombra. Gli ultimi quindici anni hanno visto passare sulle grandi tele dipinte dall'artista ischitano tre soli motivi iconografici: la tenda, la figura umana e il paesaggio. Ma proprio per questo è particolarmente importante saper cogliere i momenti cruciali di questi passaggi. Si è già detto, ad esempio, come attraverso un processo di graduali trasformazioni la tenda, che prima campeggiava solitaria, innalzando "nella luce del crepuscolo" (come dice il titolo di un'opera del 1989) il grande telo con il suo tripudio di colori perlacei, sia poi affondata nella vegetazione, modellando le pieghe sui profili e sulle nervature delle foglie e degli arbusti (come accade nell'Ultima tenda, del 1991, dalla severa e scarna mo-numentalità, modellata quasi sull'armatura dei cespugli), lacerandosi, sfilacciandosi e accendendosi di una nuova vitalità nei rossi di fuoco e nei caldi incarnati (come mostrano La tenda perforata e Un segnale luminoso, due opere, del 1990, di vibrante e libero pittoricismo). Poi, perduta la propria identità, la tenda scompare assorbita nel paesaggio, preannunciando, però, l’apparizione dell’uomo con alcuni strani segnali. Guardando, infatti, un dipinto del 1992, Vegetazione, è difficile non pensare che qualcosa si nasconda nel folto delle piante: la sensazione di un occhieggiare, il sospetto di una presenza enigmatica, che un altro quadro dello stesso anno, Paesaggio rosso con figura, dichiara a tutte lettere nel titolo, ma poi suggerisce appena, e non meno enigmaticamente, con qualche indizio lasciato nell'incendio dei rossi che, divampando sull'intera superficie, fa di quest'opera, insieme con il vivido e fiammeggiante Uomo e paesaggio in rosso, dell'anno successivo, una singolare prefigurazione di approdi toccati stabilmente dall'artista, come si vedrà, solo sul finire del decennio. Uomo seduto nel verde, del 1993, è non solo un dipinto ricco di fervide qualità cromatiche, ma forse anche quello che meglio rappresenta questa prima fase del ciclo degli Uomini nella natura. Intanto il paesaggio è profondamente mutato. Non ci sono più, a far da sfondo alle ampie superfici della tenda, i cieli immobili e le radure tranquille, silenziosamente digradanti verso l'oscurità. Non c'è più lo "spazio del silenzio", dove la tenda, allargandosi fino a sfiorare i bordi del quadro, sembrava volersi proporre come il luogo stesso della pittura. Lo spazio ora è occupato dallo spettacolo di una natura rigogliosa ed esuberante nell'intrico delle sue forme, che hanno avviluppato ed assimilato anche l'ultimo brandello della tenda. L'impasto vivacissimo dei verdi sul volto dell'uomo non deriva da un gioco di riflessi colorati; è il segno di quell'unico processo d'immedesimazione che coinvolge i cespugli e l'erba, le vesti e il corpo dell'uomo, e mescola il sangue con umori e linfe. A dar forza a questo sentimento panico della natura interviene una pennellata dal ductus vibrante, che invade lo spazio, rompe i confini delle cose e le immerge in una tessitura cromatica mobilissima. Con gli Uomini nella natura la pittura di Mattera conosce uno splendore fenomeni-co tanto più intenso quanto più avvertito come valore momentaneo e irrepetibile. Ciò dilata ed esalta il sentimento della bellezza e della vitalità della natura, ma nella visione del flusso di frammenti colo-rati che scorre obliquamente sulla tela la meraviglia è sfiorata dal presentimento della fine. Questo, fuor di dubbio, circola in un gruppo di tele dipinte intorno alla metà del decennio. Uomo con la camicia viola, del 1993, ripreso e modificato tre anni dopo e diversamente intitolato (Uomo nel paesaggio), Uomo con la camicia bianca, del 1994, Uomo seduto con le gambe accavallate e Uomo vecchio, entrambi dell'anno successivo, recano tutti il segno di questo ripiegamento interiore, riconoscibile non tanto in certi elementi, tuttavia da non trascurare, di natura specificamente iconica – la solitudine dell'uomo seduto e come perduto dietro una visione o un pensiero, le mani poggiate nel grembo o sulle ginocchia, l'atteggiamento stanco, smarrito ecc. – quanto nei modi di una pittura che non ha più la fremente energia gestuale né l'esul-tanza cromatica delle le opere realizzate da Mattera tra il 1990 e il 1993, ma procede impastando l'uomo e la natura con grumi e scaglie colorate, costruendo e insieme sfaldando la forma, facendo perciò sentire come questa nel momento in cui viene alla luce e meraviglia il nostro animo incomincia già a decomporsi, a perdersi nello sfondo, quasi che l'esistenza, nel suo stesso fondamento biologico, sia niente altro che sopravvivenza, sospesa precariamente tra il buio dell'origine e quello della fine. Uomini in rosso Questi pensieri costituiscono la trama su cui poggia anche un altro momento cru-ciale nella pittura di Mattera: quello che porta alla scomparsa del paesaggio attra-verso il suo lento ritirarsi dalla scena, progressivamente riassorbito nell'impasto del colore. E' un momento preannunciato da alcuni titoli del 1993: pur essendo ancora ben visibili, nel quadro, i tratti del paesaggio agreste (come gli arbusti allungati e le piante dalle foglie lanceolate che serpeggiano intorno all'uomo e talvolta lo avvinghiano e lo coprono), l'artista ha preferito far riferimento solo al colore del fondo (Uomo in piedi su fondo rosso, Uomo su fondo blu, Uomo su fondo giallo e così via), come a segnalare l'allontanarsi del paesaggio dal fuoco del suo interesse. Certo è che negli anni successivi l'immersione della figura umana nella natura attenua molto quel carattere di immedesimazione panica e quegli accenti di felice esultanza vitalistica costantemente presenti nei dipinti tra il 1992 e il 1993, per diventare partecipazione ad un clima, ad una situazione complessiva, di umori e di stati d'animo calati intimamente nella percezione del corpo e, meglio, nella percezione del disfarsi di questo e fondersi con il corpo della natura. Questo, a sua volta, non appare più come spettacolo di det¬tagliate circostanze am-bientali, ma è coagulo di colori che lega il fondo coi primi piani, impasto fluido in cui la luce filtra variamente, mai fissandosi in distinti partiti chiaroscurali. Alcuni quadri scaglionati nel tempo quasi ad intervalli regolari esemplificano con grande intensità poetica questo passaggio. Impronta, del 1994-'95, In penombra, del 1996, e Dall'oscurità, del 1997-'98, sono affogati in un'aria caliginosa, in una luce umida che calando sulle cose ne estenua i profili e le rende simili a incerte apparizioni. Immagini di un crepuscolo greve, di un autunno piovoso – se sono consentite queste metafore, che certamente non valgono come indicazioni meteorologiche e stagionali – che lo sguardo non riesce a scandagliare. In realtà, in questi dipinti di Mattera non ci sono più profondità da scrutare e dettagli ambientali da riconoscere. Bisogna abbandonarsi al lento, affaticato diffondersi della luce entro il continuum di una materia cromatica che non s'ordina più lungo la griglia spaziale, ma dilaga sulla superficie, dove vaga ancora qualche fantasma d'immagine. Altre volte il filtro della materia, diventata più asciutta, si alleggerisce e lascia che la luce riempia lo spazio. Ma proprio in questi casi – e si veda soprattutto Nel giallo, del 1996, e Di fronte, del 1998, ma anche Sulla panca, dello stesso anno – si può capire quanto profondamente sia cambiata la pittura di Mattera e come essa più che fingere il luogo della realtà sembri voler ascoltare le ultime voci che si aggirano nel deserto dell'animo. In uno spazio liberato dall'ingombro delle cose e delle impalcature che le reggevano non è possibile trovare neppure il ricordo di quel paesaggio che, all'inizio del decennio, vi si accampava. Le poche tracce di figura che vi si scorgono non hanno forza di gravitazione. Sembrano sospese nello spazio, appena ancorate a qualche addensamento di colore e di luce. In attesa, del 1998, mostra una situazione dolcissima e disperata, con una grande figura di donna inventata sul confine del nulla eppure ancora capace di evocare desideri ed attese in quell'ombra di morbi-di e teneri accordi tonali da cui è sfiorata. Quest’ultimo dipinto segna il passaggio al ciclo degli Uomini in rosso. La scena è vuo-ta. Non ci sono più le tende e i paesaggi. Sulla scena è rimasta la pittura, un colore che modula sottili variazioni di luce rossa. Un rosso vuoto, come un campo abban-donato dai giocatori, eppure capace di richiamarci, per la forza di quelle poche tracce, per la persistenza del ricordo che esse custodiscono, ad un rapporto di tota-le frontalità. Quella con cui riconosciamo il nostro volto nello specchio. Forse per questo i dipinti del Ciclo rosso, pur collocandosi sull'estremo margine della pittura come rappresentazione, non interrompono il circuito tra l'arte e la vita, ma lo riattivano. Quando, infatti, ci tro-viamo al centro del loro tiro incrociato, quando le variazioni dei rossi diventano onde che risuonano nello stesso spazio che noi abitiamo, sentiamo accendersi nelle ceneri della mimesi un’energia per-cettiva che si amplifica e ci coinvolge. Uno splendore stupefatto, una luce attonita, un colore che dilaga e resiste oltre il tempo della percezione visiva è ciò che rimane della memoria di questo ciclo, prossimo, credo, alla sua conclusione. Ma non sarebbe ragionevole azzardare una previsione sui tempi e sul modo in cui ciò accadrà. O forse, a riaprire il cerchio che sembra oggi sul punto di chiudersi, sarà un nuovo passaggio, un leggero e insospettato scar-to. Nell’estate del 1999 concludevo pressap-poco così un mio scritto che, insieme con un altro di Marco Lorandi, introduceva, in catalogo, la personale di Mattera nella Galleria EloArt di Ischia. Le poche tele degli Uomini in rosso esposte per la prima volta al pubblico esibivano risultati del tutto coerenti con quelli delle opere pre-cedenti, almeno dal 1996 in poi. Il processo d'immersione della figura umana nelle circostanze ambientali era spinto ad un punto tale da sciogliere le forme dell’uomo e della natura nella modulazione di un fluido materico unico, appena attraversato da passaggi di ombre e di luci, e innervato da fibre intermittenti e scaglie di colore, che potevano leggersi ugualmente come ultima spoglia o larva incipiente di presenze umane. Marco Lorandi, accompagnando il percor-so che aveva portato Mattera a questi primi dipinti degli Uomini in rosso con alcune acute considerazioni sull’iconogra-fia della “standing figure” nell’arte del Novecento, osservava come già la serie che lui chiamava delle “figure in verde”, dipinte tra il 1994 e il 1997, si presentasse come “un’indagine acuita, insistita, quasi ossessiva sulla postura del corpo seduto in mezzo ad un paesaggio, punto cruciale di un dipanarsi di segni, di tracce, di impronte e di orme che l’icona permea in un colloquio continuo e reciproco con la sostanza materica”; e si chiedeva: “E’ il paesaggio che come genere a sé stante si è dissolto rispetto al l’emer¬genza della “standing figure”? O, piuttosto la figura a diventare “la nevralgia”, proprio nell’accezione eti-mologica del termine, che impregna la res extensa fino a farla diventare anima stessa di un paesaggio quale prolungamento e dilatazione del senso dolente della natura umana?” Mettendo, così, al centro della domanda un’idea di “nevralgia” che è intuizione critica capace di illuminare tutta la splendida e “sofferta ritrattistica della dolenza esistenziale” costituita dagli Uomini in rosso. E se è vero, come credo, che la critica d’arte alla fine non possa fare molto altro che segnalare qualche via di accesso alla comprensione dell’opera, allora bisognerà convenire che non si potrebbe disporre di migliore viatico per il ciclo degli Uomini in rosso che alcuni passi dello scritto di Lorandi, estratti dall’insie-me delle riflessioni che l’autore è venuto svolgendo generosamente intorno alla pittura di Mattera, interrogandosi “sul senso della fine, del destino, ma non come una meditatio mortis, al contrario, sulle ragioni del vivere” . Nelle riflessioni degli artisti sul proprio lavoro c’è sempre qualcosa che aiuta a comprendere la loro opera . Non mi rife-risco tanto a certi laboriosi tentativi di sistemazione teorica in cui talvolta anch’essi s’impegnano, quanto a quelle brevi e spesso occasionali annotazioni in cui affiora un leit motiv, uno stato d’animo o un pensiero ricorrente. C’è un appunto del 1979, affidato al catalogo d’una mostra in Germania, in cui Mattera, accennando alle ragioni della sua “poeti-ca”, descrive i tratti essenziali della sua pittura in un modo così limpido e incisivo da riuscire convincente ancora oggi, e non solo in riferimento alle opere che egli allora andava realizzando . Mattera chiarisce che negli aspetti quotidiani della vita non è il dato di cronaca ad inte-ressarlo, ma la visione di una “umanità con il proprio carico di disperazione, nella ineluttabilità del proprio destino”. E, dopo aver riassunto efficacemente la condizione esistenziale dei suoi bagnanti , conclude con una frase che dice molte più cose di un lungo saggio critico e indica la strada per un approccio fecondo anche ai dipinti degli anni successivi: “Il confondersi tra il sogno e la realtà, tra la speranza e la disperazione, la resa pittorica quasi monocromatica, l’assenza di confini e contrasti, creano un quadro in cui ogni elemento può ritrovarsi protagonista nell’ambiguità e nel mistero”. Si mettano queste parole a fron-te degli Uomini in rosso e si avrà la confer-ma di quanto abbiamo appena finito di dire . Il sentimento panico che aveva segnato le prime inquiete apparizioni degli uomini nella natura, il ductus concitato della pennellata che alimentava una tessitura cromatica densa e mobilissima, in un rimescolio continuo di sangue, di tessuti e di umori vegetali, si sono risolti nella pace di questo sconfinato lago rosso. Dove galleggia ancora qualche rara scaglia di altre materie pittoriche, un frammento di colore caduto, la lama bianca d’un guizzo di luce. Dove l’icona - appena un’in¬cre-spatura o un passaggio d’ombra nella plaga palpitante - segnala il prodursi di una momentanea emergenza: la breve esistenza dell’uomo e la speranza dell’arte di fermarla nel tempo.

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