Gabriele Mattera . Opere dal 1975 al 1984

Studio Miele . Ancona

01/12/1985 - 31/12/1985


mostra gallery testi critici catalogo

La metafisica del quotidiano

Franco Solmi

sabato 27 luglio 1985

La metafisica del quotidiano 

            Credo debba essere dato atto a Edoardo Malagoli, autore dello scritto d’apertura del volume «Le barche e l’approdo» che raccoglie opere composta da Gabriele Mattera fra i primi anni Settanta e il 1975, di aver intuito alla perfezione gli sviluppi che, da quella data, avrebbe avuto la pittura dell’artista ischitano allora impegnato in una dura, fors’anche ruvida, impresa di chiarificazione linguistica nei confronti di nodi espressionistici aggrovigliati per scelta di realismo o, almeno, di testimonianza narrativa. Tutt’altro. L’assunzione di codici nordici, ispessiti e come fermati da una memoria post cubista, rispondeva alla necessità di rispondere da pittore profondamente colto all’incombente fascino del «popolare» avvertito fuor di ideologia e magari mutuato da straordinari artisti «ingenui» operanti nell’isola, da Bolivar ad Aniellantonio Mascolo, forse meno da De Angelis. Ma era, appunto, una risposta colta, destinata a svolgersi dal particolare all’universale l’universalità tende, nelle nostre terre mediterranee, a fissarsi in immote vertigini metafisiche. Così la previsione di Malagoli, criticamente fondata sugli ordini fermissimi di Tra le rocce del 1974, Bagnante e Conversione del 1975, ci è ora possibile verificarla ben oltre l’orizzonte di chi l’ha formulata. Di fronte alle opere ultimissime in cui le figure di Bagnanti e gli oggetti della spiaggia si stemperano e quasi si dissolvono nelle magie del gioco tonale, pur resistendo, come le povere cose morandiane, al limite estremo della loro insopprimibile realtà, si può ben cogliere l’esattezza dello scritto di Malagoli che dice di forme la cui «presenza si staglia in spazi che paiono vuoti e quasi inabitabili, in un tempo che non è storico ma immobile come l’eterno; le luci vibrano di una vita autonoma che avvolge le cose ma le alleggerisce  e le estenua in un’atmosfera rarefatta, mentre il colore si fa diafano senza riflessi e fulgori». Come sempre accade nella pittura che non sia frutto di apprensioni meramente concettuali, ma affondi radici nell’indistinto di una vocazione certa ed implacabile quale è quella di Gabriele Mattera, il processo di liberazione dal peso della cronaca è lento e costante, anche se segnato da illuminazioni improvvise. Per quanto riguarda l’interna struttura delle opere, anche le più «rarefatte», ecco gli antecedenti necessari nelle bonnardiane Finestre del 1970 e del 1972, o certe composizioni di barche quasi svanenti nel pulviscolo tonale chiarista e in Paesaggi bagnati di rosa tenerissimi, svarianti nel viola. Fan da controcanti «lirico» a composizioni coeve ancora accese e rutilanti di cromie, azzurri intensi e rossi caldissimi, verdi non ancora marciti, squillanti: che sembrano negare, col loro affocato groviglio di terra, acqua e cielo, ogni possibilità di contenere in misura rigorosamente strutturata un empito decisamente romantico, come di un Turner abbacinato da luci troppo potenti ed improvvisamente impietrite. E proprio in questo momento che Mattera costituisce le prime implacabili immagini di Bagnanti: ancora scomposte, quasi affannata, quella del 1972. Ma ecco, gettata ai limiti dell’allucinazione metafisica, Tra le rocce, opera del 1974 da cui si deduce quanto si sia rivelato fruttuoso per Mattera il rapporto vissuto, di dare e avere, Leonardo Cremonini che all’isola d’Ischia ha trascorso alcune fra le sue più felici stagioni di pittore. Le forme della figura, delle rocce, del cielo e dell’acqua che si fondono come in blocchi di liquido cristallo, sono ancora dure, quasi irsute nel loro richiamo esplicito alla grande tradizione dell’affresco italiano. Ma è un rimando illividito, brutalmente moderno in quei colori senza respiro, in quelle luce d’aereoporto. Ed è qui che s’innesta la polemica formale di Gabriele Mattera nei confronti d’un mondo irrigidito negli schemi della comunicazione e del consumo di massa dell’immagine, polemica ben più sostanziale di quella che traspare dall’affollarsi d’una umanità anonima e sfigurata, passiva, condannata all’esistere e privata dell’essere. Subito il pittore recupera l’ambigua e misteriosa dimensione dell’atmosfera, della luce che non cala ma s’irradia dall’interno del dipinto e dà senso anche plastico all’intera composizione, cosicché è il linguaggio a farsi espressione, e non la volontà del dire, dell’affermare didascalico o propria dei realisti impegnati, a determinare la scelta linguistica. A questo punto occorre tener presente che la più avvertita cultura di contestazione sociale, nei primi anni Settanta, non procedeva per dichiarazioni e manifesti collettivi ma recuperava in positivo il senso e l’immagine della sconfitta dell’individuo, della sua solitudine di eremita di massa e di soggetto biologico dannato al rituale di comportamenti dettati «per copia conforme» dai meccanismi neppure troppo occulti della ingegneria umana a cui non parevano opporsi che i poveri strumenti della critica sociologica, funzionalissimi al sistema. La grande fiamma del ’77 non fece che accelerare il crollo delle ultime illusioni di libertà collettiva, provocando quel riflusso nel privato che caratterizza l’era postindustriale e, per quanto riguarda l’arte e la cultura, le disordinate manifestazioni del «portmodern», anacronistiche o avveniristiche che siano. Gabriele Mattera dimostra con la sua pittura che egli di illusioni ne ha coltivate ben poche, e ciò spiega la sua insita presa di distanza dalle fedi socialmente professate, quel pervicace pessimismo di cui si nutre il dubbio creativo di questo «apolide ideologico» a cui ha reso così commossi omaggio Ercole Camurani nel testo d’apertura del libro dedicatogli nel 1981.  Ma anche le fedi pittoriche non hanno in questo artista un cieco osservante. La sua cultura, come la sua immagine, è profondamente, irreparabilmente critica e non lascia margini di rischi di coinvolgimento che le teorie e le pratiche in codice impongono a chi si avventuri nel gran pelago del «far moderno». La sua pittura, si direbbe, cresce su se stessa, si sostanzia di intere energie, trova accenti propri e singolari al punto che, rispetto al clamore e all’accalcarsi di nuovi e di antichi avanguardismi, essa si definisce per via negativa, come una straordinaria e urgente assenza. Allo stesso modo procedeva, per vie forse più segrete ma sostanzialmente non dissimili, la lenta, paziente, inaccessibile pittura di Giorgio Moranti, un artista che Mattera ha certamente molto amato. È vero che, in certi momenti della vita e della storia dell’uomo, la torre d’avorio (Castello o umile studiolo d’anacoreta moderno) può essere il luogo dove s’esercita una resistenza e una offesa potente contro chi minaccia i valori più semplici e più elementari, non ultimi quelli della poesia. Io non credo che la nascita, la vita, la sorte – sia pur legate a luoghi d’antichissime pene e d’ori solenni come il Castello Aragonese ove Mattera costruisce con lenta e sicura pazienza le proprie immagini – possano dare ad un artista molto di più di ciò che egli si conquista come testimone di una situazione (non solo dell’arte) che è nel tempo e fuori del tempo, nello spazio e fuori dello spazio. È una condizione di ostinato durare, di ostinato partire che, nell’arte, può attingere la pace inquieta delle metafisiche. È questa metafisica del quotidiano, questa contraddizione dolorosa e felice, ad esprimersi nei dipinti silenti degli anni ultimissimi sui quali pare batta, per assedio di stupida modernità, la luce degli antichi soli morti e il riverbero d’un alto e malato sentire. È un segnale estremo di vita che ci viene dalle deserte spiagge dell’arte contemporanea e anche se al dubbio oggi si è affissa l’ombra della malinconia, il messaggio di Gabriele Mattera non è disperato né disperante: per virtù propria di poesia, l’ultimo assurdo, forse, che la coscienza felice dell’arte può opporre alla coscienza infelice del mondo. Ecco: anche nelle immagini più stremate, la presenza di vita pare dissolversi nei fantasmi d’una umanità inconsistente, nelle ultime tracce, v’è sempre il sapore di una felicità stranita, fors’anche leggermente perversa nel proporsi come residuo d’una presenza divenuta irreale o in attingibile, ma che si percepisce come sentimento, tutto umano, della privazione a cui la poesia dà respiro e concretezza. Immagini e non figure, è vero. La realtà dell’arte non consente altro che il mistero dei simulacri, incapaci ormai, per nostro irreparabile cinismo, di farsi simboli e metafore. Né simbolica né metaforica è l’arte di Gabriele Mattera. Essa rimanda a se stessa, non è la cifra di un mistero che può dispiegarsi, ma il mistero stesso, l’essenza e l’assenza di una realtà che l’uomo può ancora scorgere ma non penetrare. Forse con queste mie parole rievoco la metafora kafkiana del Castello, tanto ricorrente nella letteratura critica limpidamente esercitatasi sull’opera dell’artista ischitano, ma ciò può magari dimostrare che da molte vie si può giungere alla comprensione e all’apprensione di un mistero quale è, e resta, l’immagine pittorica se non obbedisce ai codici della imagerie divulgata nella quale splende (e s’adombra) la superbia dei concetti contro l’umiltà potente e, lo ripeto, segreta della sostanza pittorica. Non bisogna tuttavia credere che Mattera abbia dissolato, nelle opere anche più diradate di presenza umana, la memoria di corpi, volti, situazioni determinatissime e perfin create da necessità «oggettive» di racconto e di descrizione. Si considerino le prove grafiche di questi stessi anni. Si vedrà come la sinopia, la struttura portante che regge in equilibrio le più perigliose «divagazioni» liriche, che sono tali solo in apparenza. Basterebbe citare per comprendere ciò, i tanti fogli che raccolgono gli Studi per amanti o scene di vita sulla spiaggia, così come le carte acquerellate sugli stessi soggetti ove il disegno, a differenza della pittura, resiste nella sua aggressiva plasticità e non si stempera neppure laddove l’artista tende a fonderlo in valore atmosferico. Resta non solo la traccia evidente del segno potente e deciso che caratterizza, chiudendola in misure implacabili, l’immagine del Nudo 1975, un inchiostro su carta greve e limpido, ma anche il sapore di terra raggrumata, alla Premeke, di tanta grafica ultima. Riconoscendo da un punto di vista strettamente pittorico le opere che aprono la serie attuale è evidente lo scarto linguistico e formale che passa fra i già ricordati Bagnanti tra le pietre del 1973 e Tra le rocce del 1974, ancora fissate a modi nordici definibili in termini di postsecessione, e le vellutate, intense immagini che Gabriele Mattera compone dal 1975 in avanti. Qui prevale il valore tonale e di atmosfera, con conseguente corrosione del segno, stremato residuo portato a galleggiare alla superficie di una struttura che resta, comunque, forte e tesa. Se ci si prova ad isolare le figure, magari ricorrendo all’ausilio dei coevi disegni, si vedrà che in alcune opere del 1976 e del 1977 la componente espressionistica è ben lontana dall’essere eliminata. Il peso greve delle deformità anatomiche, che riporta a dimensioni di realismo le figure di dipinti come Tre donne al mare del 1976 o Donne e bambino in attesa dello stesso anno, è comunque riassorbito e pressoché annullato da un contesto cromatico lontanante e irreale. Le prospettive di una soluzione metafisica sono già delineate in queste opere cariche di limpida ambiguità e non saranno più rimosse.

            Si direbbe che un processo di purificazione del dipinto si realizzi attraverso il filtro del disegno, che raccoglie e fissa i residui oggettuali e ne mantiene la traccia forte laddove il disegno più pare labile e nel quadro tutto si svolge all’astrazione. Questa è tale anche quando i relitti della visualità quotidiana mantengono la loro parvenza fantasmatica di incidenti necessari e significativi di un processo di progressiva liberazione. È la lirica pura del «fare arte», del creare, come si diceva un tempo, parvenze altre rispetto a quelle fisicamente apprendibili. Probabilmente Gabriele Mattera non giungerà a condividere del tutto a condividere questa mia interpretazione – certo drastica – della sua solitudine di pittore dell’immalinconita e ormai immemore socialità, ma non v’è dubbio che la definizione del suo stile si ha attraverso una in definizione dell’immagine che si fa interrogativo irrisolto, testimonianza di un essere che non può risolversi nell’esistere o nell’osservare. Non sottovaluto certamente la positività del contributo di critici come Paolo Ricci che hanno dato lettura diversa – anche se a mio avviso non completamente contrastante – , di queste opere davvero «estreme». Dopo aver sceverato le matrici culturali europee di cui la pittura di Gabriele Mattera indubbiamente si intesse, con particolare riguardo al nesso espressionismo-esistenzialismo, ricci deve salvare – per la sua interpretazione ideologica e sociologica – la figura dell’uomo anche laddove questa si dispone come assenza. Conseguentemente è costretto a ricorrere allo schema metaforico che consente di dare immagine sia pure indeterminata al Potere (Kafka, il Castello) e giustificare, in termini psicanalitici, l’arte come luogo della rimozione, della pace o, per usare le parole dello studioso, la dimensione in cui può cogliersi «il senso immobile e composto della visionarietà». Io credo invece che proprio in queste limpidissime composizioni ove tutto allude a una possibile armonia si debba cogliere il massimo d’angoscia, di una sofferenza cercata e patita che Mattera, artista non impassibile, dolorosamente partecipa e comunica proprio nei modo dell’assenza dell’uomo, della sua ineluttabile perdita d’identità.

            Con il trascorrere del tempo la condizione dell’uomo collettivo alla quale alludevano scopertamente le prime opere di Mattera, diventa argomento o pretesto pittorico irrilevante rispetto a quella «privata dell’individuo pittore». L’immagine non nasce più dal soggetto prescelto, pescatori, bagnanti, spiagge o paesaggi, ma dalla visione interiore dell’artista probabilmente la sente come un inconscio a priori portato a reggere la struttura plastica e pittorica dell’opera più che a svolgersi in racconto conseguente. Allo stesso modo il punto di origine dell’immagine non lo si coglie secondo l’ottica dello spettatore. Come accade per i quadri di Moranti, o di Chardin, l0immagine nasce e si proietta dall’interno del contesto strutturale e cromatico e viene condotta a galleggiare in superficie come elemento oggettivo – mare, cielo, figura umana labilissima – ma come concezione di pura pittura che detta gli ordini della propria spazialità. In questo senso le opere di Gabriele Mattera sono davvero metafisiche. Esse sfuggono alle determinazioni narrative e sociologiche perché con queste non hanno alcun legame: che invece si avverte fortissimo, con la personalissima e individuale imagerie dell’artista solo, anche se non solitario.

            Il processo di decantazione, di sostanziale riduzione ad unità espressiva compiuta sul piano formale non avviene linearmente ma si svolge nel riassorbimento progressivo degli elementi che nelle precedenti opere in più dilatata pulsione. Ecco la materia, ancora franta e non priva di spessore nel dipinto datato 1974-76 Spiaggia in pieno sole d’estate, che s’ispessisce in quieta lanugine a dar senso arcaico e arcano all’immagine di Donne sulla spiaggia del 1975 e a Donna sola dello stesso anno. L’evidente citazione di Carrà e delle atmosfere mitiche raccolte nel periodo del Pino sul mare, dichiarata nel primo dipinto, nel secondo – pur tanto simile per taglio e struttura – è del tutto allontanata per un «far francese» che ci riporta a preziose stagioni del postimpressionismo. Ho citato precedentemente Bonnard, un maestro che Mattera da questo momento ha sempre presente, ma anche la memoria di Matisse e Vallotton mi sembra sorregga tanta parte di queste opere nelle quali il segno razionale, dell’incombenza metafisica, riappare quasi costantemente a risarcire l’ordine astratto delle geometrie nella materia viva del colore. Ecco la sbarra dell’ombrellone nell’affocata immagine del 1979 e nel dipinto con figura di Bagnante del 1980-81, ove la notazione espressionistica ritorna fortissima, ma come in controluce. Di esplicita accezione Novecentesca – il nome è ancora Carrà – lo spartirsi geometrico dei piani e l’addensarsi dei bruni, degli azzurri bruciati, dei bianchi illividiti nella solenne composizione «La tenda blu» e nella più essenziale «Spiaggia con cabina».

            A prevalere è poi il senso panico, la solitudine non rimarginata, che testimoniano i dipinti «Bagnante» e «Estate» nelle quali linee del capanno rimandano a soluzioni cromatiche proprie dell’immagine «pop» così come è stata tradotta in Europa da artisti che hanno saputo trovare la chiave dialettica fra l’opprimente necrosi dell’oggetto di consumo e la vitalità affocata, ma non spenta d’un umanesimo non perduto. Di assoluta invenzione è il taglio dell’opera «La spiaggia e il mare» con la larva di nudo sdraiato gettata alla deriva, povero relitto di confuse forme al quale fa riscontro, potente, lo scorcio ardito e tagliente del mare. L’azzurro minerale rompe, e vorrei dire ferisce, la quiete cromatica della ovattata composizione pittorica, subito ricomposta in solennità quotidiana nei dipinti  «Bagnante con il costume bianco», «Uomo supino», «All’ombra della cabina» e, ancora, nel recupero arcaico-metafista dell’opera «Uomo seduto in riva al mare». Ma ecco il momento, mai eliminato del tutto, della suggestione materia in composizioni come «Bagnanti con asciugatoi» ove batte il sapore di antiche calcine sulle quali hanno resistito ( resistono?) gli straniti graffiti dell’espressionismo, tracce insepolte che galleggiano anche nelle composizioni più classiche «Grande spiaggia», «Bagnante» ove la figura umana ricomposta senza le primitive ridondanze anatomiche, riassume una funzione di segnale formale, di elemento di struttura «Il grande cielo». Ho accennato all’inizio al nome di Turner e al romanticismo lirico e panico che par tradursi nei moderati vortici dell’ultima immagine di Mattera quando questa lascia più trasparire in superficie le tensioni d’un profondo sentire. Ne sono un esempio le opere «Bagnante sull’asciugamano» «Nuda al sole» alle quali risponde la volontà di riduzione all’essenziale del pittore che riconquista la dimensione d’una classicità inquieta. Sono silenzi su cui s’alza, improvviso e inatteso, uno squillo cromatico: della sedia a sdraio sulla destra di «Autunno al mare» e della cuffietta sul capo della figura in primo piano nell’ultimo dipinto eseguito da Mattera al momento in cui scrive queste note «Composizione balneare».

            Vien da chiedersi, a questo punto, quale sarà il cammino ulteriore di questo straordinario artista in cui vengono a convergere, e a tenacemente resistere, i valori i valori di una moderna tradizione europea che s’è formata non nella negazione ma nell’attrito, con le più affascinanti testimonianze dell’avanguardia storica e nella coscienza soprattutto, della propria irreparabile crisi. Non sarà certo un tuffo nell’astrazione gratuita delle neoavanguardie che rivisitano con indifferenza l’informale e il Novecento, l’espressionismo e il futurismo, invischiandosi nell’indistinto coacervo di segni perduti del presente. Credo che più semplicemente, e più drammaticamente, Mattera ricalcherà la proprie orme di solitudine, spettrali tracce d’una poesia ancora possibile per chi possa immaginarla. E darle immagine.

     

 

 

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