Gabriele Mattera . Opere dal 1975 al 1984

Studio Miele . Ancona

01/12/1985 - 31/12/1985


mostra gallery testi critici catalogo

Nudi destini di caducità

Ela Caroli

giovedì 1 agosto 1985

Nudi destini di caducità 

perché ogni cosa rivelata debba svanire e morire, Mi chiedo perché il sole non tessa in eterno i suoi arcobaleni su quella corrente montana, perché paura e sogno e morte e nascita rendano cupa la luca diurna di questa terra con tali tenebre – e perché abbia l’uomo in destino amore e odio, sconforto e speranza.

P.B. Shelley, Inno alla Bellezza Intellettuale

 

 

            Una visione «a distanza», antinaturalistica, dell’ambiente mediterraneo – culla della Civiltà e del Bello, dove Goethe cercò senza successo la Pianta Originaria – è l’allucinata, ma atarattica pittura di Gabriele Mattera. Un’atarassia che ottiene con un processo di riduzione: dall’angoscioso Theatrum Mundi l’artista-regista scaccia le urla laceranti, le competizioni e le risse, le maschere e le passioni, trasferendo la scena in un utopico limbo senza tragedia, senza tempo e senza lingua, ma dove si celebrano continuamente grandi cerimonie mute, essenziali, in un linguaggio metafisico, fatto di simboli cristallizzati e perciò durevoli.

            La caducità è alla base dei gesti, delle forme, del lavoro umano, insomma dell’essere tutto. La vita è sogno, ma anche i sogni sono caduchi e limitati, veloci e sconfitto in una labile memoria umana. La Storia è una esigenza di salvezza, per combattere il Tempo; ma – come diceva Benjamin, «neanche i morti saranno al sicuro dal nemico, se egli vince» – il nemico vittorioso è l’impotenza, contro la ragione, dalla quale essa nasce.

            Gabriele Mattera intinge i suoi pennelli nell’utopia, immaginando, cioè mettendo in immagini, l’irrappresentabile: le sue forme non sono più comprese dalla vita, o vivono in uno stato di transizione, che durerà eterno. Sconfitte dal nemico, queste forme sono sogni opachi simmeliani, ma senza risveglio finale. Spogliati dell’esistente, usciti da ogni morale e da ogni pensiero, sono ombre nel regno del non-naturale, dove tutto è simbolo, e forse sono più reali della realtà, se è vero l’assunto di Lukàcs «L’esistenza è il meno reale e il meno vitale di tutti i modi di essere».

            Nel mondo della Metafisica, opposto al mondo della tragedia, «nude anime dialogano solitarie con nudi destini» (Lukàcs) e per conseguenza, quali potevano essere i soggetti – simboli ideali per Mattera, per figurare l’Irrappresentabile, cioè il mondo al di là del conflitto? Dei bagnanti; bagnanti su spiagge – spazi illimitati, ritirati in una scena dove la caducità non ha luogo di manifestarsi. Seminudi o nudi, cioè concettualmente senza parole, in silenzio, i bagnanti dialogano solitari con i loro nudi destini: essi si fermano su una spiaggia di purgatorio dantesco, dove la vita non è tragedia, ma sintesi formale del conflitto dell’uomo. L’ambiente mediterraneo è sublimato, assente-presente, così come anche in Dante: un riferimento vago ma essenziale: e il mare qui è il mare primario, originario, come liquido placentare, spesso ridotto solo ad una striscia che segna l’orizzonte. La luce proviene da un sole invisibile, è diffusa nell’atmosfera in mille particelle vibranti, è una luce olimpica, cosmica, dalle tonalità azzurrate, dove anche l’azzurro è simbolo, simbolo dell’infinito spazio cosmico. Qui non c’è nulla di rassicurante:la natura è assente, regna l’indifferenza e l’atemporalità. Il sogno non è vita, ma evento, non mondano, quasi profetico. Il pittore transita in questo mondo da osservatore e descrittore, quasi non l’avesse creato egli stesso ma trovato già fatto in un suo viaggio al di là della storia: e transitando, accentua o diminuisce nelle sue descrizioni gli assunti reali o quelli utopici: a volte infatti l’azzurro cede il posto a violente fiammate sulfuree, a volte cupi bagliori di tenebra grigio-violacea campiscono le raffigurazioni di questo ascetismo a volte quasi doloroso. Se la pace eterna è nella conciliazione tra luce ed ombra, qui i residui di un conflitto tra ragione ed immaginazione ancora sussiste, e a volte sembra addirittura lacerante, nelle nebbie diffuse dell’intelletto che vaga inquieto. L’ordine è lontano, malgrado tutto, e l’infelicità sembra affacciarsi: le figure umane a volte si distendono senza peso, leggere come foglie su questi lidi beati, a volte sono oppresse dal peso della loro carne, che la forza di gravità accoppia alla terra, fatalmente.

            In alcuni dei primi quadri della serie dedicata ai bagnanti, i corpi distesi o eretti avevano volti significativi, senza espressione alcuna ma come scolpiti nel gesso, irrigiditi e plasticamente contratti; poi la denotazione fisionomica è andata via via svanendo, e i personaggi si sono messi di profilo o di spalle, allontanandosi man mano dall’occhio dell’osservatore come per perdersi verso il lontano orizzonte; quei corpi pesanti, maturi, quasi flaccidi hanno tolto la loro ingombrante presenza dalla rappresentazione e si sono allungati sulla sabbia, in lontananza, o distesi su sedie a sdraio hanno preso a scivolare obliquamente sulla loro stessa ombra. Quei corpi sono stati come ingoiati dall’atmosfera che li circondava: dall’ingombro all’assenza quasi, alla riduzione a simbolici calchi pompeiani o ad ectoplasmi chiamati da un immaginario medium: inquietante «cupio dissolvi» ha fatto sì che quasi estinguessero, stanchi di lottare, che svanissero anche da quel limbo rosato e palpitante di tenero colore, mai abbastanza indifferente, mai abbastanza sicuro. A volte nelle composizione restano solo pochi elementi oltre la striscia dell’orizzonte a delimitare gli spazi; mute cabine, o vuote sdraio, oppure tendine parasole, o una semplice asticella persa nell’orizzonte, che dà un senso di vertigine. Sono andati via tutti, so sono finalmente persi nello spazio.

            Mattera tratta con un distacco sanamente critico la sua materia e la sua capacità creativa, quasi come se credesse egli stesso che tutto è inutile, eppure tutto è incredibilmente accattivante; l’inquietudine di un uomo che produce immagine non per «spiegare» né per «comunicare» ma per un profondo, sconsolato attingere alle fonte dell’Estetica pura, che non dà risposte alle domande , ma anzi aumenta il dubbio e la solitudine, fuori da ogni logica, staccata anche dalle passioni del mondo.

            Cieli e spiagge statici in apparenza, in realtà terremotati da fitte pennellate di tinta luminosa, con un lavorìo incessante della mano che ha guidato il pennello ad ottenere gli effetti più ricchi di trasparenza e di perpetuo moto immutabile; esseri pacifici ma senza pace, divorati dall’ansia di dissolversi al più presto nell’infinito mondo dei non esistenti, pur se ancora attaccati alla loro solitaria spiaggia, sulla riva di quel mare appena percettibile, in un’eterna bassa marea, soli che non sorgono e neppure tramontano, ma soltanto rischiarano; dettagli che si intravedono e si perdono nel tutto e nel nulla. Le creature sono indecise, il gioco è perdente, anzi impossibile, l’arteficio è apparente, giacché sulla scena non c’è nulla che mascheri e che nasconda la finzione per renderla verosimile: il trucco c’è e si vede, l’effetto è scontato e prevedibile. Questo universo ridotto, pacato, imperturbato e immobile parla nel suo mutismo, si sublima nell’indeterminatezza, decide per se stesso la sua utopia, non combatte la caducità con il desiderio di salvezza. Non c’è alcuna possibilità di salvezza. Come una scena pirandelliana o un racconto di Kafka, le rappresentazioni di Mattera ricordano l’assoluta instabilità dell’esistenza, l’impossibilità di mettere ordine, la disincantata cancellazione del desiderio. In questi rituali ogni cosa perde potere: la parola, il gesto, addirittura l’immagine stessa, che si avvicina alla condizione dell’Irrappresentabile.

            Nell’interiorità del silenzio è inutile ogni esteriorità di affetti, di gesti, di parole. La pausa pirandelliana conduce all’assurdo, come all’opposto la mancanza di pause nel discorso joyciano – quell’inarrestabile «strem of consciousness» – porta al delirio. La vita è sogno, ma l’equazione opposta, il sogno è vita, non è assolutamente vera. Il sogno non è vita, il sogno equivale a se stesso, è dimora dell’eccezione, dell’impossibilità di specchiarsi, di rivolgersi alla propria coscienza. Distanziarsi da se stessi, dialogare coi propri silenzi, dialogare nudi coi propri destini: forse è così che si combatte la caducità, e ci si salva dal nemico, il Tempo.

           

 

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